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Recensioni di libri

La gioia, all’improvviso di Manuel Vilas

Guanda, 2020 - Vilas, padre “mendicante d’amore”, scrive dunque di nuovo la storia dell’amore di un figlio verso i suoi genitori, in un costante sforzo di attraversamento e convivenza con il dolore della perdita.

Federico Carciaghi
Federico Carciaghi Pubblicato il 12-11-2020

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La gioia, all'improvviso

La gioia, all’improvviso

  • Autore: Manuel Vilas
  • Genere: Storie vere
  • Categoria: Narrativa Straniera
  • Anno di pubblicazione: 2020

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“Agli inizi del 2018 ho pubblicato un romanzo, un romanzo che era il racconto della storia della mia vita, quel romanzo si è trasformato in un abisso.
Dentro quel libro abitava la storia della mia famiglia.
Bach e Wagner, mio padre e mia madre.
Ho messo la mia famiglia in un libro che aveva musica ed è la cosa più bella che abbia fatto nella vita.
Sei pazzo?, mi hanno detto in tanti.
No, è soltanto amore, ho risposto. Soltanto amore, e necessità, e speranza. Quando parli della tua famiglia, quella famiglia torna alla vita”.

Con questo gioco a metà fra l’auto-finzione e l’autobiografia, con una scrittura breve, impressionistica e frammentata, Manuel Vilas torna in libreria con il suo nuovo romanzo che prende le mosse dal precedente In tutto c’è stata bellezza (Guanda, 2019) e ci regala un nuovo capitolo del suo personale e intimo omaggio alla memoria della sua famiglia. Vilas sta girando il mondo per la promozione del suo successo editoriale, e attraverso gli incontri con il pubblico ricostruisce nuovamente frammenti del suo passato filiale; negli occhi e nelle parole degli altri ritrova gli echi delle voci genitoriali che compongono una sinfonia di ricordi che mettono insieme le pagine di questo libro.

Ne La gioia, all’improvviso (Guanda, 2020, traduzione di Bruno Arpaia), pertanto, è come se l’autore sentisse il bisogno di aggiungere un commiato definitivo al potente atto di amore profuso nel suo primo libro, come se nella sua mente fossero rimasti gli ultimi frammenti di un discorso amoroso già avviato, le ultime tessere del mosaico che compongono il suo ritratto familiare.
Vilas, facendo eco a Proust, dichiara nel libro di professare la “religione del passato”, esercitandosi continuamente nell’arte della memoria. Una memoria che disseziona singoli frammenti della realtà per assurgere a dichiarazioni di amore universali:

“Vivere con la consapevolezza di ciò che si è vissuto, con la memoria perfettamente affilata, come un coltello da macellaio, in grado di affettare e fare a pezzi i decenni in anni, e gli anni in mesi, e i mesi in giorni, e i giorni in ore, e le ore in minuti, così la voglio la mia memoria”.

Un esercizio di memoria che sfiora l’ossessione maniacale, tanta la paura di perdere traccia dei propri cari. Vilas, padre “mendicante d’amore”, ne La gioia, all’improvviso scrive dunque di nuovo la storia dell’amore di un figlio verso i suoi genitori, in un costante sforzo di attraversamento e convivenza con il dolore della perdita, in una faticosa necessità di darle un nome concreto: Arnold. Si pone come un anello di congiunzione fra generazioni, fra il passato dei suoi genitori e il futuro dei suoi figli, chiamati a tramandare l’eredità paterna. È tuttavia anche il tentativo di rovesciare definitivamente quel dolore e farne un trampolino di lancio per convertire le energie negative in un flusso di immagini in movimento capaci di spostarsi nel presente per mantenersi al fianco dell’autore:

“Mi mancava quel nome per averti di nuovo al mio fianco, perché continuassi a essere ancora presente, a occupare i miei luoghi, a espanderti senza fine. Adesso non sei musica, sei immagine in movimento”.

Così Bach si trasforma in Cary Grant e l’amore di un figlio verso i propri genitori si converte definitivamente in quello che un padre desidera rivolgere ai propri figli:

“Quando un padre o una madre regala un soprabito al figlio e lui lo indossa, quel padre e quella madre toccano il corpo del figlio attraverso quell’indumento, e possono così sentirsi in pace. Attraverso il soprabito regalato, sono con il figlio, è questo il miracolo”.

Un gesto semplice come regalare un cappotto per Natale si fa quindi metafora di un sentimento universale, che si innesta sul messaggio cristiano. In queste poche righe emerge di fatto con prepotenza il comandamento dell’amore: come il Padre ha amato me, così io ho amato voi.
E seppur inerme, alle volte, di fronte alle difficoltà di comunicazione con i propri figli, accusati con tono canzonatorio di non saper intrattenere conversazioni al telefono che non raggiungano il minuto, buttando un occhio dunque anche ad un’analisi della socialità moderna, Vilas cerca di svelare infine il mistero della sua scrittura, che altro non è se non una ricerca costante di verità, il desiderio ossessivo di trasmettere amore ai propri figli per fare in modo che i ricordi non vadano dispersi, ma trovino un sicuro futuro.

“La natura del mio amore per voi deriva da mio padre, da quanto mio padre ha amato me. Me ne andrò da questo mondo senza sapere cosa ha visto mio padre in me. Io ho visto in voi la sua eredità. Forse è questo che mio padre ha visto in me: l’eredità di suo padre, di cui non ha mai parlato”.

Dentro all’apparente banalità del quotidiano perciò si nasconde una storia familiare vitale e struggente, un percorso di progressiva consapevolezza del dolore che sfocia però in un inno alla gioia. La gioia di un amore che non muore mai, “per la semplice ragione che il dolore proviene dall’amore, e l’amore si dà dentro la famiglia”.


© Riproduzione riservata SoloLibri.net

Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: La gioia, all’improvviso

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