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Recensioni di libri

L’acqua del lago non è mai dolce di Giulia Caminito

Il libro di Giulia Caminito è finalista al Premio Strega 2021 e finalista al Premio Campiello 2021. Un libro duro, mai consolatorio, scritto con coraggio e forte consapevolezza delle diseguaglianze sociali che minano la convivenza, che rovinano i rapporti, che scavano solchi, che accendono micce pronte a esplodere, lasciando un senso di profonda amarezza.

Elisabetta Bolondi
Elisabetta Bolondi Pubblicato il 29-06-2021
L'acqua del lago non è mai dolce

L’acqua del lago non è mai dolce

  • Autore: Giulia Caminito
  • Categoria: Narrativa Italiana
  • Casa editrice: Bompiani
  • Anno di pubblicazione: 2021

La prima cosa che mi ha colpito del libro di Giulia Caminito L’acqua del lago non è mai dolce (Bompiani, 2021), finalista al Premio Campiello 2021 e nella cinquina finalista al Premio Strega 2021, è la data di nascita, 1988, e la sua dichiarazione a conclusione del suo lungo romanzo appena pubblicato da Bompiani:

“Questa non è un biografia, né una autobiografia, né una autofiction, questa è una storia che ha ingoiato frammenti di tante vite per farne una narrazione”.

Insomma tutto il materiale narrativo degli anni recenti in cui la scrittrice ha vissuto diventano un romanzo corale che ha per protagoniste assolute due donne, la madre Antonia e la figlia, Gaia, il cui nome compare solo una volta, alla fine del libro. Nell’incipit del romanzo appare Antonia, che si presenta all’Ufficio dove giace una sua richiesta per l’assegnazione di una casa popolare spacciandosi per un avvocato con appuntamento con la funzionaria preposta. Finirà male, ma questo tempestoso inizio ci pone già al centro della storia. Antonia ha una famiglia disastrata: il figlio maggiore, Mariano, avuto a diciassette anni da un uomo ora in prigione, e poi la ragazza, io narrante della storia, i due gemelli Maicol e Roberto, e il loro padre, Massimo, operaio edile precario che, caduto da un’impalcatura e paralizzato, vive stancamente su una sedia a rotelle.

Tutto il peso di questa sconcertante famiglia ricade interamente sulle spalle di Antonia: una guerriera, coraggiosa, intraprendente, priva di remore, una leonessa capace di tutto per difendere il suo nucleo. I suoi sono valori forti e semplici: onestà, correttezza, dignità, amor proprio, senso del dovere. Si risparmia, si aggiusta, si studia, si lavora, il sistema educativo che propone ai suoi figli è severo e intransigente. Mariano è un ribelle e pur amando la famiglia verrà allontanato e mandato a vivere a Ostia dalla nonna. Il resto del nucleo, ottenuta finalmente l’assegnazione di un’abitazione, si trasferisce dal tugurio improbabile in cui erano stipati nel quartiere romano di Corso Trieste.
La loro estrema miseria e la diversità delle abitudini mal si coniugano con le pretese piccolo borghesi dei condòmini, tanto che la ragazzina che si trattiene in giardino, cercando di catturare i pesci rossi nella fontana, viene rimproverata e sgarbatamente allontanata. Antonia capisce che non sono graditi, e scambia l’appartamento trasferendosi ad Anguillara Sabazia, sul lago di Bracciano.

Qui crescono i ragazzi, qui vive la sua adolescenza e prima giovinezza Gaia, qui avviene la sua educazione sentimentale, sociale, culturale, emotiva. Le sue amiche, i suoi insegnanti, i suoi amori, gli incontri, i contrasti, gli sgarbi sono la trama intorno a cui la scrittrice costruisce la sua narrazione, fitta di un’infinità di dettagli, di oggetti, di abiti, di arredi, di cibi, di mobili, di mezzi di trasporto, di luoghi d’incontro, di interni ricchi e poveri, di luoghi desolati, di scorci di natura, di luoghi non luoghi: una campagna mangiata dalle villette a schiera, un lago deserto ma anche affollato di gitanti malvisti dagli abitanti del paese, un bar, una chiesa antica dove si celebrano i matrimoni, una brutta chiesa moderna dove invece avvengono i funerali.

Giulia Caminito ci fa confrontare con Gaia, alle prese con sua madre, che la sorveglia in modo ossessivo, mai contenta del suo comportamento. Eppure lei è bravissima a scuola, ossessivamente studiosa, anche se priva di tutto quanto possiedono le sue amiche: non ha abiti nuovi, è magrissima e priva di forme, non ha scarpe alla moda, riesce a procurarsi una scassata bicicletta e un vecchio Motorola senza colori e senza internet, l’unico suo lusso che deve tenere ben celato alla madre. In casa si vive degli oggetti smessi dai più ricchi, si riusa qualunque cosa, non si decora l’albero di Natale, non si avrà il televisore fin quando non ne entrerà in casa un vecchio modello smesso dai datori di lavoro di Antonia, che si sfianca facendo la domestica.

Ci sono alcuni episodi, nel lungo racconto, che colpiscono in modo quasi violento; le giostre, nel loro classico squallore, vengono ospitate una volta l’anno in paese. Oltre alle autoscontro e ai “calcinculo” non manca il baraccone del tirassegno. Il giovane Andrea offre a Gaia un po’ di tiri, per gioco. Lei spara mostrando una mira infallibile e una determinazione non comune, tra la sorpresa di tutti, e vincendo un enorme peluche rosa, un orso, che porterà a casa dove rimarrà come l’ oggetto simbolico di una violenta contraddizione. Non è rosa infatti l’infanzia di Gaia, non lo sarà la sua adolescenza, segnata da violenza, delusione, paura, morti precoci, tradimenti, sesso senza amore, amicizie fittizie.

Un’antropologia, quella raccontata da Caminito, mai dolce, come dice il titolo del libro, piena di angoscia, di miseria, di degrado, di abbandoni. Le due “personagge”, madre e figlia, vengono viste, con i loro capelli rossi malamente tagliati in casa, come due strani prototipi di un’umanità sofferente ma coraggiosa, povera ma non rassegnata, pronta a dare battaglia ai ricchi, ai parassiti, ai prepotenti, mettendo in campo ogni strategia, anche fuori della legalità.
Una società provinciale, anche se così vicina alla capitale, che viene narrata con un linguaggio talvolta colorito, pieno di elenchi, liste di oggetti, particolari fisici che in pochi tratti sintetizzano una condizione esistenziale, delle marcate differenze, delle sofferenze dovute a particolari apparentemente insignificanti che sono invece così importanti nella fase della crescita:

“Iris ha quel vestito giallo che le ho visto addosso la prima volta, ha legato i capelli in una coda alta, come quella di Agata, si muovono insieme verso di me e io non so distinguere più passato e presente, provo il dolore fisico di uno schiaffo, una bionda e una mora, bilanciate e seducenti, hanno sui loro corpi i colori giusti, sanno camminare sui tacchi più alti dei miei e si sono messe lo stesso rossetto color pesca”.

Un libro duro, mai consolatorio, scritto con coraggio e forte consapevolezza delle diseguaglianze sociali che minano la convivenza, che rovinano i rapporti, che scavano solchi, che accendono micce pronte a esplodere, lasciando un senso di profonda amarezza. La studentessa di filosofia che sceglie lo studio e non si adatta al lavoretto precario parla di una generazione a cui è stato sottratto il futuro. Tema attuale su cui è importante riflettere e la letteratura in questo caso riesce ad aiutarci.

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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: L’acqua del lago non è mai dolce

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