Nel suo ultimo libro Amatissime, edito da Giulio Perrone Editore, Giulia Caminito ricostruisce la storia della scrittura italiana al femminile intrecciando le esistenze di cinque autrici del Novecento: dalle più note, come Elsa Morante e Natalia Ginzburg, alle più dimenticate, come Laudomia Bonanni, Paola Masino e Livia De Stefani.
Tra le pagine la narrazione saggistica si mescola all’autobiografia ricostruendo per tappe, dall’infanzia alla maturità, anche la vita della stessa Giulia, il suo apprendistato di scrittrice, il confronto costante e inevitabile con i modelli letterari.
Vincitrice del Premio Campiello 2021 con L’acqua del lago non è mai dolce (Bompiani, 2021), oggi Giulia Caminito può definirsi una delle scrittrici italiane più talentuose della sua generazione. La sua passione per la scrittura è sbocciata quando era ancora bambina - all’epoca una fotografia di Elsa Morante troneggiava nel suo salotto come un angelo custode e lei pensava fosse una sua vecchia zia - e si è poi sviluppata negli anni con impegno e costanza, talvolta con fatica, ma in maniera ineluttabile, come obbedendo a un destino.
Giulia Caminito ha esordito nel 2016 con il romanzo La grande A, edito da Giunti, dedicato alle memorie di sua nonna paterna vissuta nell’Africa postcoloniale. Con quel primo folgorante libro d’esordio ha vinto il Premio Brancati Sezione Giovani e il Premio Giuseppe Berto, affermandosi da subito come una voce di spicco nel panorama letterario italiano. Nel 2018 ha pubblicato con Bompiani il romanzo storico Un giorno verrà, in cui si confrontava con il ramo materno della sua famiglia e la figura del nonno Nicola, un anarchico vissuto nelle Marche del primo Novecento; e infine, nel 2021, è stato il turno di L’acqua del lago non è mai dolce, ambientato nei più contemporanei anni Duemila, vincitore del Premio Campiello e del Premio Strega Off che l’ha portata al successo sulla scena internazionale.
Nei libri di Giulia Caminito la scrittura non è mai svincolata da un discorso sociale, politico e, per inciso, anche storico. Nella sua narrativa si intrecciano molteplici temi - dalla differenza di classe, al riscatto sociale sino alla questione di genere - in un calderone di pagine in ebollizione che parlano sempre al presente, persino quando raccontano del passato. Segno distintivo dell’autrice è una prosa fluida e poetica, uno stile inconfondibile che trova il proprio modello di riferimento nelle grandi autrici del nostro Novecento letterario, da lei propriamente definite “le Amatissime”.
Ne abbiamo parlato con Giulia Caminito in questa intervista.
- Amatissime è anche una storia d’amore, come suggerisce il titolo. Parla di quell’amore esclusivo in cui si identifica e che aiuta a crescere. Mescola autobiografia e saggio raccontando una storia di costruzione del sé. Ho trovato significativo che tu abbia dedicato il libro a tua madre e alle tue maestre.
Secondo te la crescita è questo tentativo di adeguarci ai modelli che ci siamo dati in segreto?
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Questo libro è nato proprio da una passione, da un rapporto d’amore. Ciò che lega tra loro queste cinque autrici è il valore che hanno dato alla scrittura. Ciascuna la metteva al primo posto nella propria vita, le attribuiva un significato unico, un senso totalizzante. Possiamo dire che erano “prima scrittrici e poi donne”. Questo è ciò che mi ha catturato in ciascuna di loro e che mi ha spinto a legare le loro storie: sono state i miei modelli, da ognuna ho imparato qualcosa, sulle loro parole ho costruito una parte della mia identità. Il progetto del libro è nato nell’ambito della collana “Le Mosche d’oro” di Giulio Perrone Editore, coordinata lo scorso anno da me, Nadia Terranova e Viola Lo Moro. Volevamo che ogni scrittrice contemporanea raccontasse un’autrice del passato per farla riscoprire ai lettori. Io ne ho scelte cinque e ho proposto questo volume un po’ ibrido tra autobiografia e saggio. Non è stato facile scriverlo, ci è voluto quasi un anno di lavoro. Soprattutto è stato complicato selezionare le fonti per raccontare ogni scrittrice - anche le più famose - da una prospettiva inedita. Naturalmente il libro non ha la pretesa di essere esaustivo, ci sono saggi e tesi di laurea dedicati a ciascuna di queste autrici che ne approfondiscono meglio stile e biografie attraverso un lungo e affinato lavoro di ricerca.
- Possiamo definirlo il tuo romanzo più autobiografico. È stato difficile esporti così tanto in prima persona, parlare di te?
Diciamo che sono più a mio agio con la fiction, preferisco parlare di me per vie traverse, nascondermi nei vari personaggi. Ma per questo libro era necessario che mi esponessi. Ho cercato di dare alle varie storie un taglio inedito, fresco, nuovo. Per esempio ho parlato dell’infanzia di Elsa Morante, un capitolo della sua vita forse poco noto. Inevitabilmente la sua figura mi mette in relazione con la persona che ero e, al contempo, con la persona che ora sono diventata.
- L’intero libro si basa essenzialmente su due domande che fuoriescono dalle pagine come un urlo. La prima è “Come funziona questa regola dell’oblio, chi la decide?” E la seconda: “Come si tiene in vita una scrittrice?”. Ecco, tu che risposte ti sei data?
La regola dell’oblio è crudele e complessa, soprattutto perché segue dinamiche e direzioni impreviste. Non possiamo individuare un motivo preciso per cui una scrittrice entra nel canone e un’altra no, credo che dipenda da quanto una determinata opera risponda al sentire del proprio tempo. Guardiamo per esempio a Paola Masino: il suo libro Nascita e morte di una massaia è passato a lungo sotto silenzio, di recente è stato riscoperto e ripubblicato. Lei ha conosciuto una nuova fortuna negli anni 70-80 del Novecento, forse perché le sue opere si adeguavano meglio al sentire della società in quel determinato arco temporale.
Quanto alla seconda domanda, Come si tiene in vita una scrittrice?, rispondo: leggendola. Credo poi che per le scrittrici, come per gli scrittori, abbia un ruolo fondamentale l’insegnamento scolastico. Se le scrittrici del Novecento venissero lette nelle scuole, proposte come letture obbligatorie, non sarebbero certo dimenticate. Sono le scuole a mantenerle in vita nella cultura generale. Invece spesso la scuola dell’obbligo relega le donne al ruolo di muse ispiratrici o co-protagoniste, privilegiando invece gli scrittori che, infatti, sono entrati nel canone come Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Il suo Gattopardo è una lettura imprescindibile, presente in tutti i programmi scolastici, che gli studenti, volenti o nolenti, devono leggere. Credo che la riscoperta delle scrittrici da parte delle scuole sia fondamentale per cambiare la forma mentis, sostanzialmente patriarcale, della società.
- A un certo punto infatti scrivi che si tratta di “Una questione di donne”. Dici: “Intuivo già allora che fosse una questione di donne, che fossero loro le più dimenticate.” Credi sia ancora così o vedi dei cambiamenti nella società attuale?
La situazione certamente sta cambiando. Oggi c’è una nuova attenzione ai temi più sensibili, come l’identità di genere e il ruolo della donna nella società. Sta nascendo una nuova consapevolezza; ora non si può più parlare di certe cose in maniera sgradevole. Nelle stesse fiere editoriali, negli eventi, si fa attenzione alla presenza femminile e alla rappresentazione delle donne. C’è chi dice che questo “femminismo” stia diventando eccessivo, ma secondo me è necessario. Bisogna partire dall’eccesso per conquistare uno spazio civile. L’eccesso, secondo me, è utile per stravolgere le cose, per non ricadere nel maschilismo di fondo. È l’attenzione alla scrittura delle donne a fare la differenza. Credo che per attuare un cambiamento sia necessaria la ripetizione, come per il linguaggio: più ripeti una parola più la normalizzi, diventa meccanica. Credo che dobbiamo sforzarci in questa direzione: vedere le donne in posizioni di potere, apicali. Perché ciascuna donna che raggiunge una certa posizione apre la strada a molte altre, alle ragazze che verranno. Il mio sogno è vedere presto un Presidente degli Stati Uniti donna, da anni ci girano attorno ma non è ancora successo, sarebbe indice significativo del cambiamento.
- Nel capitolo dedicato a Natalia Ginzburg dedichi un’interessante riflessione al ruolo dell’editoria. Critichi in particolare “la facilità con cui i libri si fanno e si disfano, diventano carta da impastare.” Una frase che riflette la sovrapproduzione libraria attuale. Quanto è cambiata l’editoria dal Novecento di Ginzburg a oggi?
Il Novecento ha gettato le basi dell’editoria attuale e anche alla sovrapproduzione attuale. Il “diluvio di carta stampata” è iniziato alla fine del secondo dopoguerra. Alcune difficoltà si sono accentuate negli anni e oggi assistiamo al vero e proprio collasso del sistema editoriale: vengono pubblicati troppi libri, ma al contempo questi libri hanno un arco di vita breve, non viene dedicata loro la giusta attenzione perché subito ne vengono pubblicati altri. Io credo che per cambiare le cose sia necessario fare una scelta più selettiva e investire nel digitale. Ad esempio, i libri degli influencer potrebbero essere pubblicati solo in formato digitale, risparmiando così sulla carta. Le pubblicazioni cartacee potrebbero essere riservate ai fumetti, alle graphic novel e a un numero più ridotto, selezionato di romanzi. In realtà penso che lo stesso Amatissime sarebbe potuto essere pubblicato anche solo in formato ebook. Il digitale è una grande risorsa, ci sono mezzi e dispositivi elettronici che ora ci permettono di fruire di un libro digitale come se fosse un libro vero. Secondo me è una potenzialità che l’editoria italiana dovrebbe riscoprire, non giudicandola di serie B.
- A proposito di questa nuova cultura digitale, qual è il tuo rapporto con i social network? Pensi che siano una minaccia o una risorsa?
Complesso, ne parlavo anche con altre giovani scrittrici. Siamo state immerse in un mondo che prima non c’era e con cui ci troviamo, nostro malgrado, a fare i conti.
Ogni giorno sono travolta da un diluvio di commenti dei lettori. Spesso c’è gente che tratta i tuoi libri come se stesse parlando di merende e tu non puoi fare a meno di leggere la sua opinione. Un tempo, invece, un’autrice riceveva la corrispondenza via posta e poteva decidere di non aprirla o di cestinarla, invece oggi è un continuo bombardamento. Spesso in questo diluvio continuo di commenti senti pure sminuito e schiacciato il tuo lavoro.
E poi c’è un altro problema serio per le scrittrici donne: lo stalking. Spesso siamo perseguitate da uomini che sui social network tentano vari approcci, pensando di averne diritto dato che hanno letto il nostro libro. Identificano noi con le nostre protagoniste e si sentono autorizzati a fare commenti viscidi e fuori luogo. Dopo la pubblicazione di L’acqua del lago non è mai dolce sono stata perseguitata da un uomo che mi scriveva di “voler venire a trovarmi ad Anguillara.” Cerchi di tenere a distanza queste persone, magari le blocchi, ma loro si ripresentano sotto un profilo falso. Spesso riesci a evitarle nel mondo virtuale, ma poi si presentano con insistenza alle presentazioni. Conosco colleghe scrittrici che sono state letteralmente perseguitate, non avevano scampo. È un problema serio, che non deve essere sottovalutato, ma in quanto scrittrici non abbiamo nessuna tutela.
Del resto, non vengono tutelate neppure le donne che denunciano il proprio compagno per stalking, figuriamoci noi che denunciamo un messaggio sui social network. Credo che questo non capiti agli uomini: uno scrittore uomo di cinquant’anni non si trova ad affrontare certe situazioni sgradevoli, mentre noi come donne siamo più esposte.
- Grazie per averlo detto, credo sia un problema importante, che meriti di essere denunciato. Ora torniamo ad Amatissime . È anche un libro sulla memoria. In particolare nell’ultimo capitolo, quello dedicato a Livia De Stefani, c’è una riflessione profonda sul lascito.
Mi ha sempre appassionato il lavoro di archivio, di catalogazione. Lavorare sul materiale di una scrittrice è una cosa che te la fa sentire, anche fisicamente, vicina. Leggere i suoi appunti, i suoi diari ti permette di vedere dietro le quinte dei suoi capolavori. Anche solo osservare il modo in cui ha riordinato i suoi scritti, come li ha organizzati, ti permette di capire il suo pensiero, i suoi gusti, le sue manie e, sì, infine te la fa sentire viva come se l’avessi accanto.
- Tra le pagine fa capolino Roma, intesa come città salvifica, città scelta, città d’elezione. Scrivi “Roma è la città delle mie scrittrici, quelle che più amo (...) era impossibile non passare da Roma”. Qual è il tuo rapporto con la capitale? Si è modificato nel tempo?
Roma per me “è la città”. Ho un rapporto molto positivo con la capitale, non potrei immaginare di vivere altrove. Riconosco di essere una privilegiata, perché lavoro da casa e non devo subire il traffico, i ritardi dei mezzi e molti altri problemi e accidenti che affliggono la quotidianità dei cittadini. Ma per me, che vengo dalla provincia, Roma è un grande amore perché qui trovo una vitalità culturale che mi è sempre stata preclusa. Ci sono molti stimoli, teatri, eventi, musei, conferenze, è un continuo incontro. E poi Roma è plurima, stratificata: non è una sola città, ma è come se fosse molte città insieme.
- Nel libro emerge anche questa grande solidarietà tra le scrittrici del Novecento. Molte di loro erano amiche, come Ginzburg e Morante. Mi ha colpito la scena che vede De Stefani e Masino dialogare sul terrazzino di casa come due vecchie signore che parlano di figli e nipoti e criticano le nuove generazioni. Secondo te questa solidarietà tra scrittrici è ancora possibile oggi, oppure c’è più competizione?
C’è la sorellanza, ma anche l’invidia. Entrambe sono al loro massimo e al loro minimo. C’è l’ammirazione reciproca, ma anche la ferocia. Alcune scrittrici che considero amiche le conosco da anni, da ancora prima che iniziassi io stessa a pubblicare libri. A Roma ho trovato questa dimensione letteraria, questo contatto amicale che, ad esempio, negli anni del liceo mi era sempre mancato.
Credo che la condivisione con chi fa questo mestiere sia importante, perché ti dà nuovi stimoli e influenza in positivo la tua stessa scrittura. Ma non possiamo tacere che ci sono anche invidie, recriminazioni che non ti aspetteresti in un ambito cosiddetto “civile” come quello letterario.
- Il Premio Campiello è stato un evento spartiacque nella tua vita, un grande successo, forse un po’ inatteso. L’hai definito “rumoroso, più grande di me”. Quanto è cambiato il tuo approccio con la scrittura dopo la vittoria?
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Non immaginavo che il libro suscitasse tanto interesse. Il successo mi ha travolto come una slavina, è stato inatteso, improvviso. Da un certo punto di vista è stato positivo perché mi sono riappacificata con il contemporaneo. Ora come scrittrice sono più libera, secondo me, sento di poter scrivere di argomenti più vari e diversificati, anche del presente, senza più remore.
- In un’intervista avevi dichiarato “Sul presente io non ho presa, mi fa sentire obsoleta, ancor prima di averne parlato, ho pareri inattuali”. Secondo me è significativo invece che il tuo romanzo di maggior successo, L’acqua del lago non è mai dolce, sia ambientato nel presente, parli della contemporaneità. Sei nata come scrittrice storica di saghe familiari, ma hai dimostrato di saper parlare benissimo anche del contemporaneo. Pensi ancora di “avere pareri inattuali”?
L’acqua del lago non è mai dolce è nato inizialmente come un racconto e poi si è sviluppato. Mi ha aiutato molto un’intervista che ho fatto a una donna che conosco ed è stata poi il modello per il personaggio di Antonia. Poi le cose sono venute da sé, con il personaggio di Gaia e la riflessione che ne è conseguita. Il libro racconta anche la ricerca di un’identità e volevo che vi fosse insito anche questo percorso di scoperta del significato delle parole. La mia protagonista riflette molto sui significati e fatica a definire sé stessa, non a caso il suo nome appare solo alla fine.
Raccontare questa storia mi ha riappacificato con il contemporaneo. Il libro che ora sto scrivendo, che è solo una bozza, è una storia ambientata nel presente.
- Quando ti sei definita tu stessa “scrittrice”? Oggi ti senti una scrittrice, oppure a volte pensi ancora alla possibilità di fare la stilista a Parigi, come scrivi in Amatissime?
Mi fa ancora paura come parola. Non riesco a definirmi “scrittrice”, credo di aver fatto ancora troppo poco. Al massimo mi reputo “autrice”. Ma di certo la mia vita ora ruota tutta attorno alla scrittura: sono un editor, lavoro sui testi, scrivo, non potrei immaginare di fare altro. Anche perché davvero non saprei fare altro, questo: il lavoro sul testo, l’analisi letteraria, lo scrittura, l’editing, è tutto quello che so fare.
Recensione del libro
Amatissime
di Giulia Caminito
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Giulia Caminito: “Le mie Amatissime, l’editoria e i social network”
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