Il sosia
- Autore: Fëdor Michajlovič Dostoevskij
- Categoria: Narrativa Straniera
“Il sosia” di Fëdor Michajlovič Dostoevskij non è un romanzo di facile lettura, tanto che sono stato sul punto di abbandonarlo; mi ha però sempre sostenuto la convinzione, che mi ha spinto ad andare avanti, di trovarmi di fronte ad uno snodo fondamentale della letteratura moderna, anche se non egualmente riuscito in tutte le sue parti.
Scritto quasi integralmente nella forma del monologo interiore, il romanzo alterna brevissimi dialoghi a dense pagine di riflessioni, dubbi ed impressioni di una mente malata, quella del protagonista, il consigliere Jakov Petrovic Goljadkin. Egli è un oscuro burocrate, un indefesso e rispettato funzionario governativo, che vede la propria vita e reputazione stravolte da un evento tanto inaspettato quanto sconvolgente: l’arrivo, nel suo stesso ufficio, di un Goljadkin “minore” (o “numero due”, come è chiamato in alcune traduzioni), un essere del tutto identico a lui sul piano fisico, ma abietto e senza scrupoli.
Ecco quindi che la metafora del sosia trasmigra nel topos letterario del doppio, un figuro che ha solo le fattezze dell’originale, ma che si comporta in maniera opposta, quasi sempre biasimevole. La comparsa del sosia, dunque, segna l’inizio dello scivolamento di Goljadkin verso la follia. Non si è in grado di dire se il doppio sia esistito veramente o, come è assai probabile, solo nella mente del protagonista; Dostoevskij ha scelto infatti di narrare la vicenda in prima persona, attraverso gli occhi e, più ancora, le percezioni distorte del meschino Goljadkin. E proprio in questo senso il titolo “Il sosia” può trarre in inganno; mentre infatti il sosia è “altro da sé”, il doppio è invece una “proiezione di sé”, una deviazione irriflessiva ed incontrollabile della psiche.
Il consigliere vede ovunque il suo clone, che si comporta in maniera inconsulta proprio per gettare discredito sull’incolpevole originale; memorabile la scena in cui il sosia divora dei pasticcini in un caffè, per poi far pagare il conto al vero Goljadkin, digiuno ed umiliato.
Ciò che più fa soffrire il protagonista, conducendolo di fatto alla paranoia ed alla malattia mentale, è la perdita dell’onorabilità, qualità tenuta in somma considerazione nella San Pietroburgo borghese dell’Ottocento: il sosia infanga il buon nome del consigliere presso i suoi superiori, intriga ed illude due rispettabili dame e non esita a corrompere funzionari, sobillare servi, indispettire i colleghi e compiere innumerevoli altre cattive azioni, che ricadranno tutte sulle spalle dell’innocente protagonista.
Come ho detto, la prova narrativa a cui Dostoevskij teneva di più, come si evince da molte lettere, non risulta pienamente riuscita. Eppure, e forse proprio per questo, "Il sosia" va letto con attenzione, per l’arduo compito che l’autore si pose: indagare la doppiezza dell’essere umano.
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Romanzo complesso, ingarbugliato, di una densità quasi paurosa. Eppure, si arriva alla fine, per capire quanto dolorosa possa essere l’esistenza umana.