Gelo
- Autore: Thomas Bernhard
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Adelphi
- Anno di pubblicazione: 2024
I libri di Thomas Bernhard ricordano i quadri di Anselm Kiefer, forse Gelo più di altri perché inoltre racconta la storia di un pittore dal nome aspro e oscuro,
Strauch, che sembra inglobare in sé un’apocalisse annunciata proprio come le opere di Kiefer si nutrono di rovine, di materiali di scarto, di vaste lande desolate e incongruenze simboliche.
Il pittore Strauch è un personaggio senza volto - lo conosciamo solo attraverso le sue parole che riescono a irretirci in un monologo senza fine, claustrofobico, a tratti delirante, eppure estremamente razionale nella sua lucida follia. È lui il vero protagonista di Gelo, il primo romanzo di Bernhard ora riedito da Adelphi nella traduzione di Magda Olivetti; il Narratore, lo studente di medicina che racconta la storia, in realtà è solo un appoggio, può essere letto come l’alter ego del lettore che a sua volta, leggendo, viene risucchiato senza scampo nel perenne dialogare di Strauch.
Gelo è un romanzo di visioni, la maggior parte delle quali si svolgono nella mente del pittore che, con un nichilismo così pervasivo che annienta, analizza senza sosta la realtà scoprendola, in sostanza, fatta di nulla. Le parole di Strauch ci presentano un mondo in rovina, non meno di un quadro di Kiefer, ci fanno toccare con mano le derive dell’umano e, al contempo, ci accecano con la loro poeticità.
Quand’ero giovane come lei già da tempo mi tranquillizzava pensare che nulla merita uno sforzo. E mi inquietava. Oggi mi spaventa di nuovo: in questo terrore ho perso il senso dell’orientamento.
La storia si svolge a Weng, il “paese più malinconico” del mondo, situato in alta montagna eppure lontanissimo dal cielo, come osserva il narratore: “è come se si trovasse sul fondo di una gola”. La tetra ambientazione sembra riflettere la non-trama del romanzo: una landa desolata dove nulla accade, solo neve e ghiaccio e latrati di cani che si ripetono come un’eco. “Quassù arriva quel che laggiù è indesiderato” dice il pittore riferendosi a chi, invece, sceglie di vivere a valle. Nient’altro che tenebre e gelo, un freddo feroce, tagliente, in grado di penetrare nelle ossa. “D’inverno”, leggiamo, “il dolore cade sottoforma di neve”. Perdendosi nel monologare di Strauch a un certo punto si ha l’impressione che il “gelo” del titolo sia in realtà uno stato d’animo. Il riferimento alla parola ritorna più volte nel corso del libro e sembra via via prefigurare qualcosa di vivo, di tangibile e solido, niente affatto astratto: come lettori siamo avvolti dalle spire di quel gelo.
Lo stesso accade al Narratore, l’imberbe studente di medicina, che si sente contagiato dalla follia del pittore, da quella malattia sconosciuta e indefinibile che “procede secondo una propria logica”.
Lui che dovrebbe curare Strauch o, se non altro, tentare di analizzare in maniera scientifica la condizione clinica del paziente per riportarla al suo responsabile, ecco che smarrisce la capacità di giudizio e giunge persino a dubitare delle proprie facoltà intellettive.
Il bravo studente di medicina che legge Henry James prima di coricarsi e confida in una promozione futura, avverte d’improvviso la propria “mente disarmata” e cede all’influenza del suo interlocutore. Perché c’è innegabilmente un fondo di verità in quel che Strauch dice, per quanto sia lugubre, contorto e a tratti inammissibile. Sulle spalle di quell’uomo ricurvo che cammina sostenendosi a un bastone – che gli serve per scacciare i cani, come scopriremo – sembra concentrarsi tutto il dolore del mondo e non c’è consolazione.
Ma i pensieri non si lasciano mettere alla porta quando si vuole che se ne vadano. Al contrario è la volta che si fissano veramente dentro di noi e ricominciano. Per generare rimproveri e rabbia senza fine. (…) Il pittore ha detto: “I fiori più belli sono sempre i primi a essere tagliati: a che servono i bravi giardinieri?” Poi mi ha trascinato dentro a pensieri sempre più lugubri.
È interessante notare il parallelismo che viene a crearsi tra il Narratore e il la figura del pittore; il primo ascolta, mentre l’altro parla senza sosta, ma a un certo punto la situazione si ribalta ed è il secondo che racconta la propria vita al primo, i due iniziano a contaminarsi a vicenda.
Quando il Narratore racconta della sua infanzia e giovinezza, Strauch ribatte:
Lei mi sta mostrando la mia vita nella sua vita: anche se è stata diversa dalla mia.
I due personaggi sembrano parte della stessa visione, come se attraverso loro lo scrittore volesse mettere a confronto le due età della vita: la giovinezza e la vecchiaia. La trama del primo romanzo di Thomas Bernhard pare racchiudere un’architettura della coscienza: ci pone ai confini del mondo conosciuto, nel malinconico paese di Weng, e mette in scena personaggi che sembrano allegorie di stati d’animo. Le altre figure che fanno capolino nella storia non hanno lo stesso spessore dei protagonisti: si tratta di gente semplice, come la moglie dell’oste, che pare agire solo per conformismo o per inerzia; lo scuoiatore che è anche becchino e macchia di sangue il candore della neve; l’ingegnere che sta architettando una diga nelle vicinanze e ragiona solo per formule e cifre, ascoltato con ammirazione dagli operai; tutti gli abitanti di Weng sono definiti in virtù delle loro professioni e non sembrano vivere davvero, come se rimanessero fermi sulla superficie senza andare a fondo del proprio sentire. “La gente non vuole che la si illumini”, osserva sarcasticamente Strauch. Lui solo, il pittore che di fatto non ha vero mestiere perché ha bruciato i suoi quadri e preferisce definirsi “imbianchino”, sembra essere il depositario di un’autentica forma di conoscenza. Nel finale sarà descritto addirittura come “senza professione”, a rimarcare la sua distanza ineffabile dagli altri, da tutti coloro che vivono integrati e pacifici nel consorzio umano. Nella farneticazione apparente di quest’uomo, nella sua tragica visione del mondo, cogliamo una terribile profezia che pare sempre sul punto di inverarsi: è la ragione per cui il primo romanzo di Bernhard, nonostante siano trascorsi più di sessant’anni dalla sua prima pubblicazione, appare ancora attuale. Intesse un dialogo senza tempo proprio in virtù del suo esistenzialismo: ci parla dei limiti e dei prodigi dell’umano, della violenza del mondo e degli abissi dell’anima, e così facendo in qualche modo ci consola, ci riscalda. Anche il giovane Narratore subisce la fascinazione del pittore Strauch. Quest’uomo descritto come pazzo, che un fratello ricco e professionalmente realizzato si premura di curare, è l’unica persona autentica in un mondo di maschere. Paga la sua autenticità con la solitudine, l’emarginazione, il dolore e ci ispira un’indicibile tenerezza. Strauch è in primo luogo un artista e sembra essere condannato a sentire intensamente la vita, in una maniera amplificata e quasi sovraumana; è malinconico, come tutte le persone che pensano molto. Qual è la sua malattia? Se lo domanda anche il Narratore quando, contagiato dalla sua follia, rinuncia al proposito di curarlo e si limita a redigere un lacunoso resoconto scrivendo delle lettere al suo responsabile.
Suo fratello si incupisce nella maniera in cui crede s’incupisca il mondo, che s’incupisca tutto attorno a lui e dentro di lui. “Il mondo è una graduale riduzione della luce,” dice.
La descrizione dell’incupimento patito da Strauch oggi farebbe pensare a una grave forma di depressione; ma all’epoca forse non c’erano ancora le parole che dirlo. La malattia mentale, in particolare se non presentava sintomi somatici, non poteva essere diagnosticata né curata. Thomas Bernhard, del resto, non ha scritto un romanzo sulla cura, non era certo quello il suo intento: tramite il monologo ossessivo di Strauch lo scrittore austriaco crea un linguaggio capace di demolire, di scarnificare, di rivelare infine le cose nella loro essenza non salvifica.
La narrativa di Bernhard ci immerge sempre nel cuore del conflitto, è catastrofica, non consolatoria, prefigura l’estinzione dell’umano. Nello stesso personaggio del pittore Strauch, artefice della propria autodistruzione, possiamo cogliere l’immagine dell’intellettuale, dell’artista per eccellenza, divorato dalla propria mente e dai fantasmi allucinatori generati da un connubio nefasto di memoria e immaginazione. Ricorda un altro pittore, Lars Hertervig, la cui deriva verso la pazzia è narrata dal Nobel Jon Fosse in Melancholia, di recente edito da La nave di Teseo.
Nel personaggio creato dalla penna di Bernhard vediamo lo strutturarsi di uno stato mentale complesso: per questo motivo è una di quelle “figure letterarie” che non si dimenticano perché sembra fatta dello stesso materiale magmatico e pulsante della vita.
Nel finale di Gelo il Narratore cita un articolo di giornale del Demokratisches Volksblatt in cui viene annunciato che “tale G. Strauch di W., senza professione, risulta disperso nella regione di Weng” in seguito a una tempesta di neve. Smarrito nel bianco, perso nella sconfinata vastità del gelo; del resto era un destino annunciato.
La fine di Strauch ricorda il destino di Robert Walser, lo scrittore svizzero che morì il giorno di Natale del 1956 durante una solitaria passeggiata nella neve. Le impronte dei suoi passi nel manto bianco del gelo consentirono il ritrovamento del suo corpo disteso, come un angelo, nel mezzo del nulla.
Gli scattarono una foto, quasi dovessero immortalare un concetto. Il suo romanzo La passeggiata (1917) era una metafora della vita. Anche l’infinito e ridondante monologo del pittore Strauch in Gelo, in fondo, è un eterno girovagare.
Quando nel lontano 1963 la casa editrice Insel pubblicava Frost, la prima opera di uno sconosciuto scrittore austriaco trentunenne, per il mondo letterario fu una folgorazione: seguirono elogi, consensi e anche polemiche.
“Ho preso il primo treno, quello delle quattro e mezzo. Viaggiavo tra pareti di roccia. A sinistra e a destra tutto era nero.”
Così nero su bianco emergeva, direttamente dal ticchettio della macchina da scrivere, la voce di Thomas Bernhard.
Gelo
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