

Che la letteratura non serva a nulla, e anzi sia addirittura nociva, ce lo ha insegnato già da più di un secolo Italo Svevo. Vivere di letteratura, avere la testa tra i libri o, peggio, tra le nuvole, si sa, non porta a nulla.
Basti pensare al momento in cui a un ragazzino di dodici o tredici anni viene chiesto di scegliere una scuola superiore: nel mare magnum di indirizzi, sperimentazioni e progetti si pretende che egli sappia muoversi con discreta disinvoltura da bravo “imprenditore di sé stesso”. Ovviamente la famiglia lo aiuta in questa selva intricata che è la scelta della scuola che vedrà impegnato il proprio figlio per i prossimi cinque, importantissimi anni.
L’importanza delle cose inutili nel progetto educativo
Ed allora i consigli che il ragazzo riceve sono più o meno indirizzati alla meta finale del progetto educativo, ovvero al lavoro che egli dovrà svolgere, a quello più remunerato, a quello più riconosciuto socialmente. Difficilmente i consigli tengono conto del progetto in sé e per sé, del percorso, delle inclinazioni autentiche di una giovane vita che fiduciosa guarda il mondo adulto e ciecamente lo segue. Si guarda alla concretezza, a ciò che è utile, al piano economico piuttosto che a sviluppare e coltivare emozioni, sentimenti e valori: ecco allora che la piacevole inutilità della letteratura, della filosofia, del greco e del latino si percepiscono un peso o, al più, necessari per avere una cultura da esibire.
In breve, abbiamo scordato il profondo valore educativo dello studiare “cose inutili” come sostiene la filosofa Agnes Heller, ma fondamentali per sviluppare il pensiero critico, il mondo interiore, un sistema valoriale autentico. Perché è soltanto grazie a tutta questa “inutilità” che saremo poi in grado di pensare, progettare e realizzare ogni cosa nella vita. E tra questa inutilità, spicca proprio anche la letteratura che, in quanto inutile, è paradossalmente indispensabile.
Per tornare ai nostri giovani, dunque, va detto che non insegniamo più il piacere e le fatica della lettura, che educa al dolore e alla felicità in ogni loro declinazione emotiva e sentimentale, alle storie che fanno soffrire e gioire. E poco importa che si tratti di storie inventate o fantastiche, perché non leggere significa anche diseducare all’immaginazione. Li anestetizziamo, invece, condannandoli alla sterilità delle emozioni di uno smartphone: li vediamo scrollare storie, immagini, frasi celebri di autori depotenziate del loro autentico valore perché incapaci di contestualizzarle. Li immergiamo in un eterno presente, li illudiamo che il loro profilo social corrisponda al loro essere autentico e profondo.
Il valore terapeutico della letteratura
Come avverte Alberto Pellai, la letteratura è terapeutica perché dà accesso ad una molteplicità di mondi nutrendo il nostro mondo interiore, ci abitua ad abitare la realtà, sapendo stare nel bene e sapendo stare nel male.
Ciò che ci racconta la cronaca è però una lunghissima scia di sangue che entra quotidianamente nelle nostre case e che ha per protagonisti giovanissimi la cui età va sempre più abbassandosi: ragazzi che dimostrano di avere difficoltà proprio con la gestione delle emozioni, refrattari alla frustrazione e al fallimento. Eppure Dante ce lo ha insegnato che è l’amore l’inizio e la fine della nostra umanità, del nostro saper essere umani: “l’amor che move il sol e l’altre stelle”.
Femminicidio: l’importanza dell’educazione
I fatti recenti di cronaca ci parlano del femminicidio di Afragola: l’innamoramento di due adolescenti scambiato per amore, piccole anime che vivono già esperienze enormi, troppo enormi, come la vita di coppia adulta, emozioni che non si sanno riconoscere e che esplodono, deflagrano senza una via di ritorno. Non esiste un tasto per il game over, nella vita che non è un videogioco, non esiste la possibilità di bloccare chi non ci piace: tutto è terribilmente reale e, in assenza di istruzioni, non si è in grado di giocare quel gioco che è la vita. Adolescenti che non hanno le parole per definire cose troppo grandi per i loro pochi anni e che non possono che ricorrere alla violenza o alla depressione. Questa storia terribile impone un’urgente attenzione al lavoro educativo sul piano delle emozioni e dell’affettività.
E dove sono gli adulti in tutto questo? Dove la famiglia? Dove la scuola? Dove le associazioni sportive? Abbiamo dimenticato l’attenzione per la nostra interiorità perché tutto spinge a curare il “fuori”: aspetto fisico, denaro, lavoro. Abbiamo dimenticato di leggere, di coltivare e far fiorire il nostro “dentro”.


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È nel romanzo di Giulia Caminito Il male che non c’è che troviamo, ad esempio, la sofferenza di una generazione che sente di non avere speranze, divorata dalle angosce, senza la forza di vedere il futuro, fiaccata dalla Rete e dall’intelligenza artificiale. Ma è con Diego De Silva in I titoli di coda di una vita insieme che scopriamo la natura mutevole dell’amore: è tra quelle pagine che raccontano il dolore di una separazione, la fine di un amore appunto, che sperimentiamo che l’amore può finire o trasformarsi, che saper lasciare liberi di andarsene è la forma più alta di rispetto, perché l’amore si nutre di libertà. “Amore che vieni amore che vai” cantava De André.
Ecco, questo e tanto altro abbiamo dimenticato di raccontare ai nostri figli: ci siamo distratti e abbiamo sostituito un libro con uno smartphone.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Di femminicidi, amore e letteratura: l’urgenza di un’educazione emotiva
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