Conversazione in una stanza chiusa con Leonardo Sciascia
- Autore: Davide Lajolo
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2009
Davide Lajolo, di famiglia contadina, nasce a Vinchio nell’astigiano fra le Langhe e il Monferrato il 29 luglio 1912. Di lui, scrittore e poeta, è forse noto lo scritto sulla sua partecipazione alla Resistenza, dopo che aveva abbracciato le istanze del fascismo, intitolato Classe 1912 (1945), ristampato nel 1975 e nel 1995 con il titolo A conquistare la rossa primavera.
All’inizio di maggio del 1945 Lajolo diventa caporedattore a L’Unità di Torino. Dal 1948 al 1958 è direttore de L’Unità” di Milano.
Appassionato di giornalismo, fonda il giornale sportivo Il campione, dirigendo dal 1969 al 1977 l’importante settimanale Giorni-Vie Nuove. Collaboratore assiduo a quotidiani e settimanali, per più anni è condirettore con Giancarlo Vigorelli della rivista Europa letteraria.
Nel 1958 eletto deputato per il partito comunista, Lajolo esercita la funzione istituzionale per tre legislature; assume anche la responsabilità di questore della Camera dei Deputati e membro della Commissione di vigilanza sulla RAI-TV.
Nel 1965 fa parte con Sandro Pertini della Commissione per l’acquisto di opere d’arte contemporanea al fine di incrementare il patrimonio della Camera dei Deputati.
Continua l’impegno politico, conducendo con determinazione la battaglia per il "socialismo dal volto umano".
È del 1981 la Conversazione in una stanza chiusa con Leonardo Sciascia, edita nello stesso anno da Sperling & Kupfer e ristampata nel 2009 da Edilet – Edilazio letteraria (Roma).
Fabio Pierangeli, dopo essersi soffermato in prefazione sulla biografia culturale e umana di Lajolo, introduce le motivazioni che stanno alla base della lunga intervista-colloquio con Leonardo Sciascia, facendone una pregevole sintesi:
Bisogna battersi continuamente scegliendo le armi adatte volta per volta
Afferma Lajolo. E Sciascia replica:
Fare bene il proprio lavoro. Essere se stessi. Non accettare verità rivelate o fabbricate. Non vedo altra condotta, per me, e altra speranza.
In un stanza chiusa, probabilmente di Roma, a confrontarsi da uomo a uomo sono dunque due intellettuali-scrittori, il cui vero partito è la coscienza, accomunati dall’avversione verso l’ingiustizia. L’inizio della conversazione può definirsi come la scoperta del senso della coscienza. Alla domanda con cui Lajolo gli chiede di spiegare esattamente il significato di “conservatore per essere rivoluzionario”, Sciascia risponde:
Il reazionario vuol conservare il peggio. Il conservatore il meglio. È soltanto conservando il meglio del passato che si può guardare al futuro e andare avanti. Moravia, parlando di Dostoievskij, dice che la differenza tra il rivoluzionario e il terrorista sta nella priorità che il rivoluzionario dà alla coscienza rispetto all’azione; mentre nel terrorista è il contrario. Ecco, io darei al termine coscienza anche il valore del meglio del passato, del meglio che si vuol conservare.
La coscienza, in effetti, non è che il meglio del passato.
Parla Lajolo delle opere di Sciascia ed entrambi discutono di Pirandello e dell’ironia siciliana; via via il discorso cade sulla politica: specificamente sul “compromesso storico” berlingueriano e sull’assassinio dell’onorevole Moro, su cui Sciascia si intrattiene spiegando che il suo libro su Moro è stato scritto per reagire all’operazione di regime consistente nel farlo diventare un altro:
un uomo che non sapeva quel che dicesse, un uomo che aveva soltanto paura.
Un’atroce mistificazione, dunque:
Moro era se stesso, lucidamente […] Comunque, il mio libro su Moro è da vedere più come un libro religioso che politico. Ho detestato la politica di Moro, ma dal momento in cui è stato preso dalle Brigate Rosse è diventato il mio prossimo più prossimo.
Diverse per certi aspetti, ma rispettose le posizioni di entrambi. Sciascia appare come l’intellettuale del tutto disorganico col suo spirito di contraddizione teso alla ricerca del vero: è il narratore dalla mente critica, eretica e sottratta ad ogni forma di dogmatismo. Avevano in comune il sentimento dell’appartenenza alla propria terra e li amareggiava la fine del mondo contadino. Vittorini (Sciascia predilige “Diario in pubblico”) e Pasolini (la sua morte è vista come un suicidio per non amare più la vita), animati dal bisogno di cambiamento, sono presenti nella loro conversazione. Per Lajolo i saggi di Sciascia nell’opera La Corda pazza sono esemplari per avere sondato così a fondo la Sicilia.
Illuminante la risposta di Sciascia sulla sua scrittura:
Sì, credo di essere saggista nel racconto e narratore nel saggio. Dirò di più: quando mi viene un’idea di qualcosa da scrivere, breve o lunga che sia, non so in prima se mi prenderà la forma del saggio o del racconto.
Persino Il Consiglio d’Egitto, che è forse il mio libro più raccontato, è in effetti un saggio, lo svolgimento di un tema che Rosario Romeo pone, in una sola frase, nel libro Il Risorgimento in Sicilia. I più utili per i lettori? Direi, provvisoriamente, Candido. Ma forse, ancor di più, La scomparsa di Majorana.
Il maestro di Regalpetra affida la conclusione a parole da scolpire sul frontone del Tempio della cultura:
Uno scrittore, un artista, se ha qualcosa da dire, se sa dirlo, fa per gli altri nell’atto di fare per sé.
Il libro, piacevole a leggersi, è una miniera di riflessioni e di rivelazioni sulle opere di Leonardo Sciascia.
Affascinano per l’affabile modo, non accademico, con cui sono esposte e mettono a nudo le “indignazioni” e le “passioni” di Sciascia.
Interessanti le Appendici recanti articoli di Davide Lajolo e di Leonardo Sciascia: in particolare, del primo “Pier Paolo Pasolini ucciso dalla violenza che si ostinava a combattere”; del secondo, gli interventi su Gogol e Belli.
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