Alice nel Paese delle Meraviglie
- Autore: Lewis Carroll
- Genere: Classici
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Garzanti
“Alice nel Paese delle Meraviglie / Attraverso lo specchio”, dopo Disney e Tim Burton, è andato incontro a una tale mutazione genetica che ridefinirne con urgenza lo status letterario appare improrogabile.
Innanzitutto si tratta di un capolavoro assoluto, uno di quei libri che ti soccorrono nei momenti chiave della vita, che ti ricordi per forza, vista la lezione oscura tra le righe, e con nostalgia immutata: ah, poter ritrovare l’originale sorpresa che ci galvanizzò la prima volta aprendo le sue pagine né incongrue né innocue!
In secondo luogo siamo di fronte a un’opera poeticamente ondivaga, per sua natura eterogenea e di difficile classificazione, che ancora continua ostinatamente a essere fraintesa. Va bene, la protagonista è una bambina, ci sono al suo interno tante belle filastrocche e storielline, il testo è piuttosto breve, infatti è in realtà composto da due parti distinte, anche se “Attraverso lo specchio” non viene in genere nominato, le invenzioni sono straripanti, la fantasia sbrigliata, la mescolanza tra nature animali, vegetali, umane, organiche e inorganiche, così briosa da far girare a tratti la testa, eppure non definiamola una narrazione rivolta a bambini o ragazzi.
Classificare il complesso, duplice libro di Lewis Carroll quale testo per l’infanzia sarebbe come considerare la Bibbia un fantasy o “Moby Dick” un manuale per la pesca d’alto bordo. Perché Alice è sì una bambina ma dall’innocenza melliflua che ben riflette quella della vicenda. L’innocenza e la crudeltà sono qui spesso vertiginosamente pronte a sovrapporsi, incrinate nel modo poco appariscente in cui spesso lo è l’infanzia, mai immune all’influenza degli adulti in agguato.
Il testo è breve, però densissimo: l’incontro con Humpty Dumpty è un vortice di contraddizioni ermeneutiche e semiotiche snudate senza alcun riguardo. Le filastrocche sono allegramente in rima, gioiosamente infarcite di nonsense, tuttavia noir come neppure le peggiori fiabe di Perrault o di Andersen. Il Paese delle Meraviglie appare caotico e colorato, anarchico e liberatorio nel suo confondere tutti i contorni, eppure soggiace alle regole ferree della scacchiera, ponderato e astruso come un algoritmo ferocemente implacabile, rovesciando, dall’altra parte dello specchio, il mirabile in terribile, nell’assenza di saldi criteri di distinzione tra bene e male.
Alice è la nuova antieroina della curiositas punita, devianza che sempre al mirror conduce appunto, essendo il meraviglioso, per l’anima curiosa, straordinario richiamo. Novella Psiche, Cappuccetto Rosso rediviva, Pandora in miniatura, Alice sfida le fiabe borghesi e costruisce il suo racconto anomalo e crudele mettendo a confronto l’immatura Anima junghiana in lei con l’Ombra interpretata da una regina incostante e bizzarra, innamorata del rosso del sangue e bramosa d’intrappolare la vita per smettere d’averne paura. Forse è l’adulto conflitto di simboli e fluide alchimie che ha spinto Burton a fare della sua Alice una guerriera. Ma il suo film ne ha smarrito la purezza straniata, incrollabile persino davanti ai più micidiali incontri (si pensi al Cappellaio Matto, emblema dell’Es irriducibile), alle metafore ossessive (come la dialettica mangiare/essere mangiato che l’intero libro pervade), o ai dialoghi ambigui slittanti verso la deriva analogica dei significati additata dai sogni. Si consiglia pertanto, anche per i problemi di traduzione impliciti, la lettura dei due testi nell’ottima edizione critica della Garzanti.
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