Vestru. Scene del popolo siciliano con illustrazioni in dialetto
- Autore: Serafino Amabile Guastella
- Categoria: Poesia
- Anno di pubblicazione: 2023
Ascoltiamo quanto Serafino Amabile Guastella dice del poemetto Vestru (Legare Street Press, 2023), sottotitolato "Scene del popolo siciliano":
Il Vestru, scritto nella parlata di Chiaramonte, è lavoro giovanile, sparso di un verismo crudo e plebeo che qua e là trapassa i limiti del decoro. E non per tanto m’induco a pubblicarlo perché ritrae costumi, credenze e affetti vivissimi nelle nostre montagne sino al 1860, ora impalliditi in gran parte, e perché è scritto nella vera lingua plebea, non in quella dei nostri sommi poeti, sicilianizzata anzicché siciliana.
Poi evidenzia un aspetto abbastanza interessante: il doppio registro linguistico popolare, letterario nella poesia e in certo modo nel racconto; domestico nell’uso abituale:
Ai pochi, che con amorosa e ostacolata cura si son versati a illustrare la letteratura del popolo, non riuscirà nuova l’osservazione che fra noi perfino la minutissima plebe ha una certa lingua letteraria, adoperata nella poesia e in certo modo nel racconto: lingua disforme per la pronunzia, e non rado pei vocaboli, per le locuzioni e pei costrutti da quella che usa familiarmente. Or la vera pronunzia del nostro popolo, con maggiore o minore varietà nelle singole parlate, è strana miscela di smozzicature, di contrazioni, di dittonghi, che or compaiono, ora scompaiono per chiarezza grammaticale; di spostamenti o raddoppiamenti, o cambiamenti di lettere per dare o toglier forza alle sillabe. Né la diversità è nella sola pronunzia, ma in un certo numero di vocaboli, e in una ricca vena di locuzioni, rozze e vivissime, che la narratrice del cuntu adopera radamente, e il poeta sdegna del tutto.
L’ascendenza culturale è il filone del sarcasmo da Meli a Domenico Tempio. Molto forte è il legame tra il Guastella e Giulio Cesare Cortese, poeta napoletano del Seicento della cui opera, la Vaiasseide, sono citati alcuni versi. Simile è l’attenzione alla vita popolare e identico appare l’interesse per le espressioni e i vocaboli tipici del linguaggio parlato.
L’originalità del poemetto sta nell’invenzione grottesca d’un personaggio che narra se stesso. Secondo Italo Calvino, Vestru è il componimento del Guastella di “maggiore impegno letterario”. Natale Tedesco circoscrive la bravura dell’autore “al bozzetto, al quadretto, tutt’al più al mimo che fa sorridere” e precisa che “il comico lascia trasparire una condizione di fondo assai triste”. In effetti, al centro della poetica sta, tra satira e folclore, la rappresentazione di un tipo d’uomo visto alle prese con i problemi di una vita quotidiana precaria e fatalistica. Il protagonista, “Vestru” (Silvestro), si dice discendente da una stirpe di miserabili dilaniati dalla fame e fa sentire la pena di vivere in una realtà che porta il segno della tinturia (inettitudine, indolenza che si deposita goccia a goccia e circola nel sangue o, come traduce l’autore, inerzia prodotta da avvilimento, o da imbecillità). Così è rappresentata nella sestina che apre il poemetto:
Vestru è lu nomu miu: vera semenza
Ri nanni e rritinanni affamatizzi:
Di dda gran tinturia la quintaessenza
Mi culau ni lu sangu a stizz’a stizzi.
Persi l’arma, la paci e la saluti,
Nunn aiu figgi e cciànciu li niputi.
(Silvestro è il nome mio: vera sementa / di nonni e bisnonni morti di fame: / della loro grande abulia la quintessenza / mi calò nel sangue goccia a goccia. // Persi l’anima, la pace, la salute, / non ho figli e mi affliggo per i nipoti).
Inizia dunque con il riconoscimento di spine genetiche la storia di “Vestru”: un artigiano che piange sulla sua grama esistenza, oppresso dagli usi della comunità, tragica e ridicola a un tempo. Vediamolo per esempio in una particolare situazione di adulto: il padre cinicamente gli consiglia di sposare una donna che abbia un protettore ricco e potente. Egli dapprima oppone qualche resistenza, ma la persuasione ha infine il sopravvento sui suoi scrupoli (“Nenti, figghiuzzu miu, su’ ppriggiurìzzii”).
Iddu veni ? E tu ricci: Oh cchi praciri!
Pasqua… nu nzienti ? Pasqua… cc’è ddo Gnanu!
Nièssciu, ca cchiffarieddi ci nn’ è’ assai…
Ti piggi lu ccappieddu, e tti nni vai.
(Egli viene? E tu digli: Oh che piacere! // Pasqua non senti? Pasqua… c’è don Sebastiano! // Esco, che affari da sbrigare ce ne sono assai… // Ti prendi il cappello, e te ne vai).
Che tale consuetudine, dettata dal bisogno del cibo, fosse stata allora abbastanza diffusa, è rilevabile anche dalla novella verghiana Pane nero in cui una ragazza, essendosi concessa per scelte strumentali al vecchio padrone, riscuote il consenso di tutti i suoi parenti. Restando nell’ambito del poemetto, il protettore muore e a Vestru non solo rimane una moglie pretenziosa, ma anche una figlia adottiva (“figghia ri santa”), impertinente e permalosa. Il pensiero ossessivo d’un marito la porta ad abbandonarsi a fantasticherie erotiche:
E ttant’è lu risìu ca la cunzuma,
Ch’ ha lu tràntulu e ffa cosi ri pazza,
Mentri si spòggia comu l’isca adduma,
Afferra lu cuscinu e ssi l’abbrazza,
Grirannu: veni ccà, trisoru miu,
Quantu ti manciu! quantu mi sazziu!
(E tanto è il desiderio che la consuma / che ha tremiti e fa cose da pazzi, / mentre si spoglia come l’esca brucia, / afferra il cuscino e se l’abbraccia, / gridando: vieni qui, tesoro mio, / perché ti mangi! Perché mi sazi).
Guastella offre un vivace quadretto su un costume che riflette una visione magico-rituale della realtà, dove sortilegi, fatture e scongiuri hanno lo scopo di dominare le forze della natura e realizzare così aspettative e desideri. Il bizzarro costume riguarda il modo di trovare marito. Ed è una vecchia fattucchiera, mezza parente della moglie di Vestru, che consiglia di preparare, a momento opportuno e in un modo determinato, una miscela da fare bere al primo che passa per la via.
Ppi Ssan Ciuanni on patri scappuccino
Scippatici ‘n piliddu ri la varva.
‘Udditilu tri uri ni lu vinu
Ccu pizzungurdu, e rràrichi ri sarva.
Tri stizziddi ri sangu cci jiunciti,
E a lu primu ca passa lu pruiti.
(Per San Giovanni a un padre cappuccino / strappagli un pelo della barba. // bollitelo tre ore nel vino / con “pizzingurdu”, e radici di salvia. // Tre gocce di sangue aggiungete, / e al primo che passa lo porgete).
La bevanda sortisce l’effetto. Don Biagio, che è uno scansafatiche, sposa sì la ragazza, ma aumentano a Vestru le difficoltà economiche. Per la miseria che si accumula, giunge a rimpiangere il protettore. Dalla morte di costui la fame albergava nella sua casa. E non bastavano i pochi e umili lavori che egli riusciva a svolgere: a Natale faceva statuine del bambino Gesù, per la Quaresima trottole e ccirrìa, per San Giovanni i nastrini rossi e via di seguito. A questo punto, Vestru acquista la coscienza di essere sopraffatto dai colpi bruschi della vita che lo fanno sempre più precipitare nel fondo del baratro.
Chist’è la vita mia, vita ri stienti,
Tra la fami, lu friddu e li strinciuna.
Nu nzugnu nenti, ‘n m’ arrinèssci nenti,
C’ a sdari mi piggiau la me fortuna.
Nasscìì malassciurtiatu ni stu munnu…
Mi ciercu sulluvari, e ccar’ a ffunnu.
(Questa è la vita mia, vita di stenti, / tra la fame, il freddo e le afflizioni. // Non sono niente, non mi riesce niente, / perché mi è contraria la mia fortuna. // Nacqui sfortunato in questo mondo… // Mi cerco di sollevare, e cado a fondo).
Il racconto delle peripezie assume un tono accorato quando Vestru rivolge alla sua stella un lamento desolato. Egli è personaggio sì plebeo, ma che dimostra di avere una capacità di riconoscersi, di aprirsi alla ricerca di un’identità dal momento che, quasi come il biblico Giobbe, interrogando la sua condizione vuole capire il motivo della parte ingrata assegnatagli. Nonostante il buon operare, la sorte gli si manifesta ineluttabilmente in tutta la sua negatività: contro di essa è vano lottare.
O stidda, quali fu lu me ddelittu,
Ca ccu mmia t’addimmusci ‘ngrata ?
Passa lu friddu e mmanni lu pitittu,
Passa la frevi, e mmanni la mazziata,
Eppuru ‘nfici mmali, e nnu nni fazzu,
E ppi ll’amici miei sempri mi sbrazzu.
(O stella, quale fu il mio delitto, / che con me ti dimostri ingrata? // Passa il freddo e mandi la fame, / passa la febbre, e mandi la mazzata, / Eppure non feci male, e non ne faccio, / e per gli amici miei sempre mi sbraccio).
La fanciullezza di Vestru è affidata, in particolare, ai ricordi di scuola. Guastella, dopo la vivace caricatura in un verso di “Patri Strazzieri”, il suo lettore (“panzutu, ‘nzunzatissu e bbaasscieri” come a dire “panciuto, sporco d’unto e bagasciere”), fa la parodia di un sistema scolastico che, basato sulle punizioni corporali e sull’apprendimento mnemonico, non sa scalfire le strane credenze (dduttrineddi) che affliggono la comunità. L’umorismo finissimo non finisce di sorprendere e le sestine sul rapporto maestro-scolaro sono rese efficaci da un linguaggio conciso e spigliato.
Amara la conclusione del poemetto. Non c’è possibilità alcuna di riscatto dalla miseria e dalle afflizioni, la stessa morte resta sorda all’invocazione di Vestru.
Ma sta dduttrina mia nu nciuv’ a nnenti
Sta dduttrina ‘n mi lleva ri li vai,
Li scattajàvii su’ li me’ parienti,
E la misièria nu mmi lassa mai.
Unni mi vuotu e bbuotu truovu peni,
E ssi cciam’ a la morti, ‘n zi nni veni.
(Ma questa dottrina mia non giova a niente / questa dottrina non mi toglie dai guai, / i crepacuori sono i miei parenti, / e la miseria non mi lascia mai. // Dove mi giro e rigiro trovo pene, / e se chiamo la morte, essa non viene).
C’è nel poemetto un vivace tessuto di modi di dire caratteristici della fraseologia e della paremiologia chiaramontana. L’ironia è sottile, e vigorosi e cangianti sono i tratti coi quali l’autore dà vita alle tante scene che icasticamente caratterizzano l’ambiente, i costumi e le credenze da cui si origina la storia dello sventurato personaggio.
Altro pregio è dato dalla seconda parte che, in prosa dialettale, riporta storie e leggende. Destinate all’apparato esplicativo di modi di dire e di allusioni contenuti nei versi, possono considerarsi come un documento di mitologia popolare, mostrando in buona parte una “dottrina” che fa centro attorno a una visione magica e animistica della realtà.
Ecco alcuni esempi. Collegato al motivo della metempsicosi è il racconto dell’anima che, dopo la morte del corpo, se ne va in Galizia per essere accompagnata all’altro mondo da San Giacomo. Per raggiungerlo, dapprima deve attraversare uno strettissimo e lunghissimo ponte. Il diavolo, che sta giù, fa di tutto per farla precipitare ma invano, in quanto è sotto la protezione del Santo. È nella lettera indirizzata a Giuseppe Pitrè, datata Modica 1 novembre 1883, che l’argomento è ripreso con l’introduzione dei violi o vìuòli, una sorta di “viottoli” celesti. Inoltre, il demologo precisa che il viaggio può farsi anche in vita secondo una credenza specificamente diffusa nel modicano. In tal caso, uomini e donne si recano, secondo precise regole, nella chiesetta di San Giacomo, lontana un miglio da Modica sulla fiumara di Scicli. Il viaggio astrale attraverso il ponte, quale congiunzione fra cielo e terra, è davvero sorprendente. Ciò che suggestiona è la forte immaginazione operante sul post-mortem: è come se ci fosse uno stato di transizione verso l’altra sponda; dal ponte si può precipitare per l’intervento diabolico e senza l’aiuto di San Giacomo, traghettatore d’anime come una sorta di Caronte cristiano.
C’è in tutto questo un riflesso del grandioso strumento di purificazione che, nel medioevo, si effettuava (ancora oggi è cosi), attraverso il pellegrinaggio a Compostela. Chi muore con i piedi legati, non può dunque intraprendere quel cammino: resta sospeso nell’aria e non sa dove deve andare.È questa la sorte toccata a un prete ucciso dal sacrestano: l’anima, dice la narratrice, appare sul tetto della chiesa sotto forma di un cane bianco. Infine, il racconto si chiude con l’indicazione del sortilegio per liberarla da quello stato. Fantasiosa la leggenda sulla sorte di Caino: per decreto divino, di giorno se ne sta all’inferno per essere torturato dai diavoli e di notte nella luna con tre fasci di spine che, a vederli, sembrano tre macchie.
In sostanza l’opera, che oltre alla tematica fa gustare la sonorità dialettale intessuta di vivaci dialoghi, si pone come conoscenza del modo di vivere la quotidianità dei ceti subalterni.
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