In occasione della Giornata della Memoria vi proponiamo un’intensa lettura tratta dalle pagine de La Storia di Elsa Morante (Einaudi, 1974).
Uno dei capitoli più atroci del capolavoro di Morante è dedicato al treno dello sterminio, in partenza dalla stazione di Roma Tiburtina il 16 ottobre 1943 e diretto ad Auschwitz-Birkenau. Dopo il rastrellamento del ghetto ebraico da parte dei nazisti, in quel caldo giorno d’ottobre dall’atmosfera ancora estiva, il treno sostò per due giorni sul binario rettilineo della stazione Tiburtina, tenendo oltre mille persone accatastate all’interno dei vagoni roventi senza cibo né acqua.
Sarebbe partito per il suo tragico viaggio il 18 ottobre 1943: degli 1024 ebrei che vi erano a bordo, soltanto una decina avrebbero fatto ritorno, tra questi anche una donna, Settimia Spizzichino, alla cui testimonianza Elsa Morante si sarebbe affidata per scrivere queste pagine.
Il treno dello sterminio raccontato da Elsa Morante
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Il treno dello sterminio, visto attraverso gli occhi della protagonista de La Storia Ida Ramundo, appariva di “una lunghezza sterminata”: in tutto erano una ventina di vagoni bestiame, "alcuni spalancati e vuoti, altri sprangati con lunghe barre di ferro" scrive Morante.
Verso la carreggiata obliqua di accesso ai binari, il suono aumentò di volume. Non era, come Ida si era già indotta a credere, il grido degli animali ammucchiati nei trasporti che a volte si udivano echeggiare in quella zona; era un vocio di folla umana, proveniente pareva dal fondo delle rampe.
Ida andò dietro quel segnale, per quanto nessun assembramento fosse visibile tra le rotaie di smistamento e di manovra che incrociavano sulla massicciata. L’invisibile vocio richiamava certi clamori degli asili, dei lazzaretti, dei reclusori, però tutti rimescolati alla rinfusa come frantumi buttati dentro una macchina. In fondo alla rampa, su un binario morto rettilineo, stazionava un treno che pareva a Ida di lunghezza sterminata.
Dalle grate dei vagoni si riescono, a tratti, a scorgere “due mani aggrappate, un paio di occhi fissi”; ecco l’agghiacciante rivelazione presentata da Morante con un efficace espediente narrativo, la sineddoche (figura retorica che indica “una parte per il tutto”), sono le mani con le dita protese e gli occhi sperduti la prova che a bordo di quel treno merce non si trovano animali ammassati per il macello, ma esseri umani.
Protagonista di queste pagine è la signora Di Segni, che Ida insegue tenendo per mano il figlioletto Useppe. Sarà la donna in fuga, ormai smagrita e tutt’ossa, a condurre Ida alla stazione, sul binario del treno in partenza, rivelandole l’atroce spettacolo. La signora Di Segni appare come impazzita, continua a correre avanti e indietro lungo il binario del treno gridando a gran voce i nomi dei suoi familiari:
Settimio! Settimio! Graziella! Emanuele!
L’urlo della signora Di Segni appare lacerante, sembra perforare la pagina; Morante scrive inoltre che la donna correva “sguaiatamente”, come se il suo stesso corpo seguisse le vibrazioni della voce muovendosi in modo indecente, maleducato, senza alcun ritegno. Ma le urla di quella donna erano l’espressione autentica del dolore, ancora adesso ci trafiggono nella loro impotenza: chiamava i suoi familiari in maniera disperata, consapevole di non poterli più riavere indietro. Voleva salire a ogni costo su quel treno, disposta a patire gli orrori e le torture dei lager e persino morire, pur di non dover subire in vita il vuoto della devastante assenza della sua famiglia.
A un certo punto da una finestrella del vagone si affaccia il viso pallido e occhialuto del marito della signora Di Segni, Settimio, che le intima a gran voce di “andare via, subito!”. Ma la donna resiste con le sue grida sguaiate, ancora implora, muovendo a compassione i facchini e gli addetti della stazione che si uniscono alla supplica del marito: “Vada via signora, vada via”.
Elsa Morante chiude il racconto del treno dello sterminio facendoci percepire il battito impazzito del cuore del piccolo Useppe, terrorizzato da quella visione da incubo. Il trauma, visto attraverso gli occhi di un bambino, appare ancora più indicibile:
C’era nell’orrore sterminato del suo sguardo, anche una paura, o piuttosto uno stupore attonito; ma era uno stupore che non domandava nessuna spiegazione.
Ida Ramundo stringe forte la mano di suo figlio in un ultimo, vano e materno tentativo di protezione, consapevole di non poter cancellare in alcun modo la realtà terribile che Useppe aveva visto. “Andiamo via, Useppe, andiamo via!”. Facendo appello a tutte le proprie forze lo porta via con sé, sperando così di salvarlo dallo scandaloso orrore della Storia.
“La Storia” di Morante nella lettura di Elisabetta Bolondi
In occasione della Giornata della Memoria la nostra collaboratrice Elisabetta Bolondi propone un’intensa lettura dalle pagine de La Storia di Elsa Morante (Einaudi, 1974).
Si tratta proprio del capitolo dedicato al treno dello sterminio, pagine 243-247 della prima edizione Einaudi 1974.
In queste righe strazianti, opera di grande letteratura, emerge vivida una delle immagini più atroci dell’Olocausto: quel lungo treno che il 16 ottobre 1943 stazionava sul binario deserto della stazione Tiburtina di Roma, pronto a partire per un viaggio senza ritorno.
Erano 1024 gli ebrei partiti da quel binario morto rettilineo ora scomparso, in tutto ne sarebbero stati deportati 2.091 in seguito ai rastrellamenti del ghetto di Roma (tra loro 281 bambini), la loro memoria sopravvive indelebile nelle pagine di Elsa Morante.
Da dove partiva il treno dello sterminio narrato nelle pagine di Morante?
Tramite una recente ricostruzione storica è stato riconosciuto il punto esatto da cui partì il treno dello sterminio della stazione Tiburtina quel 18 ottobre 1943. Il convoglio che Elsa Morante descrisse carico di un “vocìo di disperazione” - restituendoci l’esatta dimensione dell’immane tragedia umana - non partì, come si credeva, da uno dei binari di testa della stazione Tiburtina, ma in realtà dal lato opposto della stazione, via Camesena, dove un tempo si trovava lo scalo merci e che invece oggi, in seguito ai lavori di riallestimento dell’area, coincide con il parcheggio della stazione.
La topografia della stazione Tiburtina di Roma è cambiata, è ormai molto diversa da come appariva in quella sgranata foto aerea scattata dagli Alleati nel lontano luglio del 1943. Il binario “morto e rettilineo” del treno dello sterminio non esiste più, è stato sostituito dalla rampa d’accesso di un parcheggio e da un’aiuola verde; la geografia dei luoghi cambia e si modifica, ora Tiburtina è un grande palazzo di vetro dalla struttura futuristica, eppure sotterraneamente una memoria rimane, come l’eco sbiadita di un grido e di un dolore indicibile che una grande scrittrice ha tradotto in parole.
Quando fa riferimento alle “rotaie di smistamento e di manovra”, Elsa Morante ci sta restituendo l’esatta collocazione del treno dello sterminio che lei stessa si era premurata di accertare tramite la testimonianza di Settimia Spizzichino. Chissà che non sia stata proprio quella donna-testimone, Settimia, a offrire a Morante l’idea per il personaggio tragico della signora Di Segni, condannata a sopravvivere alla morte dei suoi cari.
Le pagine de La Storia di Morante, un grande romanzo ora tornato nelle classifiche editoriali grazie al successo della fiction Rai, sono un monito a non dimenticare.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Il treno dello sterminio nelle pagine de “La Storia” di Elsa Morante
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