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Recensioni di libri

Tremùr di Alberto Zacchi

Samuele editore, 2021 - Zacchi sa cosa sia il sentire nella maniera più totale e possiede la capacità di rappresentarlo in un modo così intenso da identificarsi nel dolore.

Graziella Atzori Pubblicato il 10-03-2022
Tremùr

Tremùr

  • Autore: Alberto Zacchi
  • Categoria: Poesia
  • Anno di pubblicazione: 2021

Alberto Zacchi, poeta, regista, uomo di teatro, fine dicitore alla maniera dei trovatori (recita negli incontri letterari, sia in biblioteche che in chiesa), ha scelto il dialetto di Flero (Brescia) come forma espressiva. Con la raccolta Tremùr (Samuele editore, 2021, prefazione di Franca Grisoni, pp. 196) è vincitore del "Premio Bologna in Lettere 2021".

Zacchi contraddice il pregiudizio di Croce secondo il quale la poesia popolare e/o dialettale non avrebbe dignità di poesia, in quanto non esprimerebbe i moti superiori dell’anima. Con tale visione Croce dimostra di non essere poeta, mostra l’aridità a cui può giungere un filosofo se stacca il pensare dal sentire. Zacchi sa cosa sia il sentire nella maniera più totale e possiede la capacità di rappresentarlo in un modo così intenso da identificarsi nel dolore, e in certo senso nella condanna se ci si ferma soltanto in superficie, inflitta da una malattia che a poco a poco distrugge il corpo, facendolo tramare e poi fermandolo, fino a raggiungere la tragica consapevolezza e l’accettazione dell’ineluttabile:

"DISTÜRBÀ”
L’è chel distürbà / che sè volares mai dà / che dà fastide / quasi pö del tremà.”
(DISTURBARE
È quel disturbare / che non si vorrebbe mai dare / che dà fastidio / quasi più del tremare.)

Vi è nobiltà in tale percorso; il poeta lo compie insieme al malato, trasformandosi nel Cireneo della Quinta Stazione delle "Via Crucis"; intento non facile, compito che ciascuno dovrebbe imparare ad assolvere almeno in una certa misura. Non facile perché si potrebbe cadere nel pietismo, molto diverso dalla compassione (etimologicamente: patire con), ed è quanto Zacchi evita, restituendoci la verità con una poetica alta e partecipativa, di grande spessore etico e meditativo. Il pensiero va, per analogia, a Leopardi, a quelle sue tragiche parole ultime:

"Sono un tronco che sente e pena".

Il male è il Parkinson, rivisitato con versi brevi, efficaci, icastici, spesso crudi, spesso di una dolcezza che soltanto il dolore irrimediabile conosce, di una sincerità disarmante; male condito anche di vergogna nel sentirsi inermi e in mani altrui, impossibilitati a compiere le funzioni vitali e i gesti consueti, ma versi anche pregni di una dignità che dovremmo tutti ritrovare:

"DIGNITÀ
Me ‘arde ‘nturen / e pòs dim fürtünat, / el mal el m’ha quasi copat, / ma ‘l m’ha mia caat el co, / el m’ha mia robat / la dignità.”
(DIGNITÀ
mi guardo attorno / e posso dirmi fortunato, / il male mi ha quasi ucciso, / ma non mi ha tolto la ragione, / non mi ha rubato / la dignità.)

La voce del malato ricorda la saggezza di Epitteto: "Sono libero anche se in catene", e anche "Sono le difficoltà a rivelare gli uomini".

Il libro è corale, vi echeggiano voci e pensieri di uomini e donne, paradigma della sofferenza universale, dell’impotenza di ogni creatura di fronte al destino. Nel leggerlo ho avuto negli occhi La capra di Umberto Saba, legata, bagnata, belante, metafora dello stesso dolore "eterno, ha una voce e non varia". Anche qui le variazioni sono poche, sebbene le condizioni fisiche di handicap ritratte siano molteplici; è uno stato assoluto e continuo. Si palesa per ciò che è: il dolore è grande maestro, senza il quale l’io non saprebbe nulla della sua fragilità e grandezza, né acquisterebbe quella saggezza di sapore socratico che sa di non sapere, eppure in tale ignoranza si annida una conoscenza superiore. In una poesia di un solo verso lapidario l’autore scolpisce la condizione umana essenziale:

"ME SO
me so ‘l nà pirdit ne j agn.”
(IO SONO
Io sono l’andare perso negli anni.)

L’"Io sono", il Daimon, rifulge per sottrazione; quando tutto si dissolve, l’Io permane. È un ossimoro magnifico che esprime quanto tutto sia effimero ma funzionale all’Io.
Credo che ciò sia possibile grazie all’intensa religiosità di Zacchi, al dialogo intimo e struggente con il Cristo interiore, indistruttibile. Jung l’ha chiamato “Selbst”, il Sé. Zacchi riesce a identificarsi con il Signore che trema sulla croce quanto il malato, trova nelle carezze spirituali divine la maggiore felicità, superiore perfino all’unione con la donna, sebbene questa venga ricordata con rimpianto, mentre il corpo diventa sempre più simile a Pinocchio, legnoso, un burattino.
Oltre che compagno segreto perennemente presente, il poeta avverte e sperimenta la portata salvifica del Cristo cosmico. Si avvicina al misticismo di Theilhard de Chardin nella Messa sul mondo. Anche il Parkinson dunque diviene sacrificio e rito, acquistando valore inestimabile:

"LE CULPE
El so Signur / che l’è mia culpa tò / e che nel tò fa sito / ta portet culpe / che gh’à ‘l me nòm.”
(LE COLPE
Lo so Signore / che non è colpa Tua / e che nel Tuo silenzio / porti colpe / che hanno il mio nome.)

Le colpe, le nostre insufficienze, l’ignoranza, l’egoismo da cui nessuno è esente. Anche nella filosofia orientale si afferma che, allorché lo spirito diventa adamantino, purificato, può portare su di sé il karma altrui. Ed è qui che oriente e occidente possono incontrarsi, in una soteriologia di cui il malato di Parkinson diviene incarnazione. Zacchi arriva al sublime, con versi finali di un impatto emotivo che ha l’altezza della rivelazione:

"CATIV
El prim slongas / de ‘na ma / l’ere mia capit / e sie deentat cativ, / adès envece / base chei dicc / che i par parlà / sensa dì.”
(CATTIVO
Il primo allungarsi / di una mano / non l’avevo capito / ed ero diventato cattivo, / adesso invece / bacio quelle dita / che sembrano parlare / senza dire.)

Perché il dolore? Questa la risposta: intravedere e sperimentare un bene altrimenti inattingibile.

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© Riproduzione riservata SoloLibri.net

Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Tremùr

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