Sono mancato all’affetto dei miei cari
- Autore: Andrea Vitali
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Einaudi
- Anno di pubblicazione: 2022
Il titolo dell’ultimo libro di Andrea Vitali, Sono mancato all’affetto dei miei cari (Einaudi, 2022), suggerisce una narrazione dal tono sicuramente meno drammatico di quanto ci si potrebbe aspettare da una tipica frase da necrologio.
Il romanzo è incentrato sulla rievocazione, in prima persona — un “monologo interiore” —, di una parte dell’esistenza del protagonista — un commerciante non privo di capacità imprenditoriali —, con particolare attenzione al contesto familiare e lavorativo e al rapporto conflittuale e contraddittorio con i tre figli.
Siamo nell’operosa provincia lombarda, fra gli anni ’60 e ’80. Il proprietario di una fiorente ferramenta non può certo pretendere che la figlia maggiore si occupi del negozio:
“Alice, la prima figlia, era stata una disgrazia di per sé. Voglio dire averla avuta per prima e, a tempo debito, non poterla mettere a lavorare in ferramenta. Cioè, avrei potuto. Ma una donna in una ferramenta, secondo me, non faceva una bella figura”.
Per farla studiare un po’, quel giusto, ci sono le scuole magistrali: quattro anni e via. Ma di continuare con l’università non se ne parla: chi troppo studia, matto diventa. E così l’Alice comincia con le supplenze, mentre il portafoglio del papà si apre e chiude come una fisarmonica per mantenerla.
Morti di fame e perditempo, come “il maestrino” o “il tromba”, non possono ambire a sposare la figlia: quello giusto arriva su una bella macchina della ditta Ferfort, in giacca e cravatta.
Quell’Anselmo lì — “Ce l’avrà bene un nome, no?” — è il nuovo rappresentante, "il solido”, e con lui finisce come doveva: con un matrimonio.
La ragazza, per una questione di dignità, non lavora, mentre il marito è sempre fuori casa. Per non averla fissa a mezzogiorno e tante volte anche la sera, non resta che fare un bel discorso al genero:
“Quando le donne cominciano a battere la matta bisogna metterci un figlio nella pancia. Capito? Così si calmano, loro e anche le nonne. Capito o no?”.
Nel frattempo, cominciano i problemi con il secondogenito, l’Alberto:
“Una testa di cazzo. Lo dicono che a volte i maschi giovani sono così. L’esatto contrario della maestrina che intanto aveva il pancione. Voglia di studiare, niente. Voglia di lavorare, ancora meno. Voglia di fare l’asino, fin troppa”.
Arresosi all’idea che il figlio voglia proseguire gli studi all’istituto tecnico — l’unico “libretto” mai aperto è quello delle comunicazioni a casa — il padre, ancora una volta, prende in mano la situazione e, per fargli passare la voglia di fare il bigolo a scuola o con gli amici, lo obbliga a lavorare qualche ora in ferramenta dove l’Alberto impara subito una cosa: come fregare i soldi.
E poi c’è l’Ercolino, il terzogenito. Nato settimino, di costituzione gracile nonostante mangi per due, passa la maggior parte della giornata sui libri — cosa che mette malinconia e una stretta allo stomaco al padre:
"Tutto casa e scuola e libri: la gioventù buttata via così".
Di quel figlio non si è mai interessato — perché i libri non servono a niente —, ma ora vorrebbe fargli fare la fine dell’Alberto e infilarlo appena possibile ad aiutare in ferramenta:
“Bella roba, aveva risposto mia moglie, destinato a passare la vita tra chiodi e viti e a portarsi addosso quell’odore ferruginoso che d’estate faceva venire anche la nausea!”.
Uscito dalla maturità con il massimo dei voti, e dal successivo campo estivo senza alcuna decisione sul futuro, l’Ercolino è alla ricerca della propria strada — attitudine che lo rende, dei tre figli, quello che più assomiglia al padre.
Iscrittosi alla facoltà Filosofia, vince una borsa di studio che gli garantirà sei mesi all’estero: un soggiorno dalle fatali conseguenze.
Troviamo, in questo nuovo romanzo, le note peculiarità della narrativa di Andrea Vitali — non ultimi, l’ambientazione provinciale e il legame con la propria terra, che va oltre il semplice affetto per diventare memoria che si custodisce e si alimenta.
Non è dunque un caso che il protagonista rappresenti la concretezza e il dinamismo che, proverbialmente, sono due qualità della società lombarda, che non risulta, tuttavia, esente da espedienti, imbrogli e truffe.
In questo mondo di provincia caratterizzato, nel periodo storico in cui avvengono i fatti narrati, da una mentalità angusta, da una vita familiare vincolata e condizionata dagli orari di lavoro, l’autore definisce i propri personaggi nell’insieme dei rapporti che li collegano, tra di loro, con la realtà sociale nella quale vivono e con i problemi che tale realtà inevitabilmente pone:
“E la ferramenta? Chiuderla? Con sulla porta un cartello «Chiuso per malattia»? Tanto per far parlare la gente? Nemmeno per idea. La ferramenta d’estate è più preziosa del fornaio perché la gente che sta a casa in ferie ne approfitta per fare lavoretti domestici, imbiancare, riparare, eccetera”.
Con rapidi lampi di una lucida e inclemente presa di coscienza, i cui tratti sono inconsapevolmente ironici e divertenti, il protagonista, dominato da un permanente cattivo umore per le contrarietà, ma convinto di aver maturato un’esperienza tale da poter risolvere qualsiasi emergenza, ripercorre gli episodi più significativi del suo rapporto con i figli e con la moglie che, inevitabilmente, si schiera sempre dalla loro parte.
Dalla descrizione dell’ovvio e del banale, passa all’evocazione dell’imprevedibile che ribalta e sconvolge la dimensione quotidiana dell’esistenza e i suoi ritmi: i presunti amori della figlia maggiore, la convocazione dal preside, la guida senza patente del figlio, un incidente di macchina del genero che si rivela un’aggressione, pianti e discussioni animate, matrimoni e nascite…
Tutto gira attorno alla ferramenta e al denaro che assicura agi e comodità — almeno fino a un certo punto. L’immedesimazione con questo mondo si realizza anche attraverso il linguaggio del narratore: oltre a essere il riflesso della sua interiorità morale, arriva a identificare la persona con l’attività lavorativa — “il Ferfort in carne e ossa” è il proprietario della ditta che rifornisce la ferramenta, mentre “il Concessionario” e “la Concessionaria” sono i genitori della fidanzata dell’Alberto.
Un flusso di parole e di riflessioni, ma anche di pianti e di silenzi, insieme a una serie di situazioni esilaranti, che spesso evidenziano una reale incapacità di comunicare e che portano all’unico epilogo possibile.
Senza alcun intento di denuncia o di condanna, in Sono mancato all’affetto dei miei cari Vitali ha saputo definire un clima, uno squarcio di società del secolo scorso e, implicitamente, una condizione umana.
Un clima e una società tanto reali e concreti quanto veri, soprattutto per chi, questo periodo, lo ha vissuto.
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