Semplici abbandoni
- Autore: Alberto Bertoni
- Categoria: Poesia
- Casa editrice: Einaudi
- Anno di pubblicazione: 2025
Quante cose scompaiono / giorno dopo giorno / se ne vanno per conto loro / senza preavviso…
Con questi versi, tratti dal componimento d’apertura, L’abbandono, Alberto Bertoni ci introduce nel cuore pulsante della sua ultima raccolta poetica, Semplici abbandoni (Einaudi, 2025): una meditazione lirica sullo scivolamento lento ma inesorabile delle cose, dei volti, dei luoghi, del tempo, che quotidianamente ci lasciano – spesso in silenzio, senza che ce ne accorgiamo – “per tornare al tempo remoto / di un loro angoletto vuoto”.
In queste pagine, Bertoni ci racconta la vita partendo dalle piccole cose: gesti quotidiani, ricordi personali, luoghi precisi come il bar, la strada di casa, o le città della sua Emilia. Sono poesie che parlano di partenze silenziose o di persone care che non ci sono più. Ma non c’è mai solo tristezza, c’è un equilibrio continuo tra nostalgia e ironia, tra dolore e leggerezza. Bertoni osserva la realtà con attenzione e affetto, cercando di cogliere il significato nascosto dietro ogni dettaglio. Il passato, e soprattutto il ricordo delle persone scomparse (la madre, i nonni, gli amici), si intreccia al presente, spesso raccontato attraverso le piccole cose di ogni giorno come “il terzo panino al latte”, il caffè del mattino o le lunghe passeggiate con la scusa “del giornale del pane del pattume”. In questi momenti non mancano gli incontri occasionali e fugaci che spesso suscitano intime riflessioni, dall’incontro con un clochard che “si pulisce d’istinto il labbro / […] prima di appoggiarlo / sul bordo del bicchiere”, al rapido saluto con una ragazza che fuma, in grado di rendere la giornata “subito migliore”.
In queste poesie, la memoria non è qualcosa di lontano o solenne, ma vive dentro le cose semplici. Anche il dolore più profondo è raccontato con un linguaggio chiaro e diretto, a volte con immagini originali e struggenti, come i versi che ricordano la madre in quarantena perché “ammalata di ’asiatica’” e “almeno per un mese inaccessibile”: il poeta, allora bambino, poteva solo intravederla “bianca / tutt’uno col lenzuolo” ed era invidioso di sua nonna e di suo padre che, non appena rientrava,
con molta, tenera cautela / tenendole le mani la baciava / su una guancia / colore di candela.
Il libro è anche un diario dei tempi recenti: c’è la pandemia, il silenzio delle città vuote, la solitudine, ma anche la voglia di restare in piedi nonostante tutto. Bertoni non si lascia andare al lamento o alla retorica, ma usa un tono sincero e spesso autoironico. In Postfatto, per esempio, cammina in una città spenta dal “lockdown secondo” in cerca “di un remoto / caffè da asporto” e racconta delle sue “indecisioni ataviche”, la sua difficoltà a scegliere, a rischiare, a “prender posizione”, riconoscendo in sé qualcosa ereditato dalla madre.
Al centro della raccolta c’è ovviamente il tema della morte, l’abbandono per eccellenza, affrontato con delicatezza e nostalgia, come nella poesia Numeri e nomi, dove il poeta si interroga sull’opportunità di conservare nella sua rubrica i numeri di telefono degli amici defunti, quasi nella speranza che un giorno possano richiamarci, in attesa di ritrovarli nell’aldilà. L’argomento viene poi sviluppato ulteriormente nella seconda brevissima parte del libro, Requiem, che raccoglie infatti quattro poesie dedicate a persone scomparse: lo studioso e amico Marco Santagata, Alessandro Sereni, lo scrittore Vitaliano Trevisan e il poeta Paul Celan. Anche qui però Bertoni non si chiude nel lutto, ma continua a cercare la voce degli altri, a immaginare il loro ritorno, magari a Zocca (paese natale di Santagata) “col suo semplice / chiacchierare fra molti / amici”, oppure in un sogno.
Accanto al dolore ci sono anche l’amore e la tenerezza: in Ménage, dedicata alla moglie Adriana, si racconta dei tanti anni trascorsi insieme, tra disaccordi e intese improvvise, ma con una sincerità che commuove:
continuiamo a saperci innamorati / non troppo sfatti, problematici / e felici.
Da buon emiliano, Bertoni non rinuncia a mettere in versi il suo amore per la tavola e il buon cibo, talvolta rievocato attraverso ricordi di infanzia (“Come ogni weekend d’infanzia / la gioia trapelava / verso sera dalla passeggiata, / quando al salame d’ordinanza si sommava / qualche nome forestiero di pietanza”) o come simbolo di una semplicità autentica ma gustosa (“Per fortuna mi piace il cibo semplice, / semplice e modenese // Pastalburro o tortellini in brodo, / polenta condita in ogni modo, / con lo zampone a bollire per sei ore, / accompagnato da fagioli e gnocco / fritto per precetto medievale / nello strutto”).
La lingua è semplice, accessibile e mai banale. L’autore riesce a incastonare con naturalezza nei suoi versi parole del quotidiano, anche straniere o prese dal linguaggio parlato: smartphone, lockdown, emoticon, boomer, chìssene, Tachipirina 1000, roastbeef, vitel tonné. Questi termini contribuiscono a rendere la poesia vicina alla vita reale, riconoscibile, in cui ognuno può ritrovarsi. Il tono resta musicale, con rime interne, assonanze, giochi di suono ed eco tra i versi, ma senza mai cercare l’eleganza forzata o l’effetto a tutti i costi. Il suo stile resta riconoscibile anche quando cita grandi poeti come Montale e Saba, il primo rievocato soprattutto attraverso alcuni versi di Satura, il secondo per le sue poesie sul calcio, che idealmente si fanno archetipi e modelli di una tradizione, di una linea di poesia dedicata allo sport che Bertoni intende ripercorrere. Molto presente è infatti la passione calcistica del poeta-tifoso, in particolare per l’Inter, che diventa un modo per parlare della vita e dei legami. Vengono esplicitamente citati i nomi di sportivi, come i calciatori Emiliano Mondonico e Luisito Suàrez (definito un “idolo”) o il pugile Franco Cavicchi, e accanto a questi anche numerosi poeti e scrittori, nominati esplicitamente o solo rievocati: Morante, Carducci, Tasso, Giudici, Sereni, Pasolini, Pessoa, Baudelaire (non si dimentichi che Bertoni, prima di essere poeta, è stato un importante critico letterario, nonché professore di Letteratura italiana contemporanea all’Università di Bologna). Fra questi compare anche un cantautore, il bolognese Claudio Lolli, del quale l’autore rievoca una celebre canzone in Ho visto anche una zingara felice, dove esprime un senso di pietà per la raccolta misera di una mendicante per “colpa degli adulti e dei bambini / che si spintonano da ore / per la maglia di Messi”. I luoghi sono quelli di sempre, le sue Modena e Bologna, ma anche Parma, Roma o città lontane come Tokio, Varsavia, Gerusalemme, Strasburgo, Parigi dove affiorano memorie personali di viaggio accanto alla “grande storia” di cui quei luoghi sono stati testimoni, con la guerra e la Shoah. In un gruppo di poesie compare anche l’America, con il New Jersey, Manhattan, il Colorado o il Venezuela: interessante è Gospel, una bella traduzione dell’omonima poesia del poeta americano Philip Levine.
Il titolo della raccolta viene da un verso di Amelia Rosselli (“semplici abbandoni nel parcheggio affondato”), e si lega in modo curioso anche al nome dell’autore: “Alberto Bertoni” e “Semplici abbandoni” sembrano rispecchiarsi, inconsapevolmente, con la stessa musica fatta di suoni simili e il ritmo breve di un senario.
Alla fine del libro, una breve prosa intitolata Odio l’olio racconta un ricordo d’infanzia, non un ricordo qualunque, “ma il ricordo primo e primario, quello da dichiarare subito allo psicoanalista”: un disgusto provato da bambino, quando per la prima volta assaggiò l’olio che la nonna stava versando nella sua minestra. Un piccolo episodio che però ci riporta all’inizio di tutto, come se tutta la vita fosse fatta di queste piccole scosse, di questi “semplici abbandoni” che restano dentro di noi.
Il libro di Bertoni è toccante, diretto e vero: ci ricorda che anche le cose più comuni possono avere un peso profondo, se solo siamo in grado di ascoltarle.
Semplici abbandoni
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