Della poesia contemporanea si parla ancora poco, soprattutto nell’ambito della critica letteraria. Si tratta di un fenomeno ancora nuovo, nato nel secondo Novecento dalla poesia popolare inglobata nel canone della cosiddetta “poesia colta”. Un linguaggio capace di mescolare la spinta espressionistica del verso libero con le strutture metriche della tradizione. Orientarsi nella poesia contemporanea è difficile, perché molti nomi non sono ancora entrati nel canone, dunque non possono essere considerati “classici” e si tende a minimizzarne il valore. Persino a scuola la poesia del secondo Novecento viene spesso elusa dai programmi che, invece, tendono a privilegiare altri autori. Dunque quali sono i poeti che oggi meritano di essere letti o riscoperti?
Zanzotto, Anedda, De Angelis, Bertolucci, Bertoni: Claudio Cherin attraverso un’approfondita analisi ci invita alla riscoperta di cinque poeti italiani contemporanei.
1. Andrea Zanzotto
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A fine 2021 è uscito Erratici di Andrea Zanzotto – un titolo di ambito geologico che richiama l’ultimo libro pubblicato in vita dal poeta, Conglomerati (2009) – che raccoglie materiali eterogenei: un centinaio di liriche pubblicate fra il 1937 e il 2011, pubblicate in riviste e quotidiani, volumi collettanei, opuscoli, libri e cataloghi d’arte. Si possono definire delle vere e proprie schegge di poesia che non avevano un posto nelle varie raccolte di Zanzotto, né nel complessivo Oscar Mondadori del 2011.
Sono prove autoriali che risultano preziose, per la loro datazione – la fine degli anni trenta –; importanti per ricostruire le letture fondative del loro autore. Ecco la presenza di Pascoli, che agisce a diversi livelli, ora nell’immaginario funebre che avviluppa l’elemento naturale (si legge per le «urne / dei fiori» di un Notturno del 1938), ora nell’assetto metrico, ora diventa rovesciamento (come Ultimo sogno, che dall’aura materna di Myricae diventa poesia che inscena un incontro amoroso, in quello stesso ’38).
Le zone più mature o tarde della scrittura zanzottiana consegnano degli anticipi interessanti, basterà pensare a un emblema zanzottiano: la luna – che lega le IX Ecloghe (1962) a Alla luna euganea: dal treno, a Gli sguardi i fatti e senhal, dedicato all’allunaggio nell’estate del ’69, fino ad una lirica che chiudeva gli inediti del Meridiano Mondadori del ’99, Su tracce notturne leopardiche.
Quanto ai testi che lascino presagire il futuro Zanzotto, sarà sufficiente un titolo come Verso i Palù del 1986 che trasmigrerà nella sezione iniziale della raccolta del 2001 Sovrimpressioni, non è stato così per i pochi versi di:
Ombre e orli d’autunno, pregi / bene offerti, gentilità di sortilegi / ben lievi, privilegi…
E discorso analogo si potrebbe fare per un “fiore zanzottiano” come il papavero, che compare in un testo del ’90 e in Altri luoghi in attesa di trovare una sistemazione più stabile nel prato sconnesso di Meteo, del ’98.
La poesia di Zanzotto, degli esordi e postuma di Erratici, tratta dell’accoglienza
e della reciproca donazione fra uomo e natura, di rifiutare quel rapporto di padronanza, sfruttamento e visione catastale che si è purtroppo generato.
Su questo Zanzotto si confronta con Leopardi, Heidegger, Lucrezio, naturalmente con Dante. In fondo, è dall’incontro-scontro fra uomo e natura che si genera cultura
nota Gianmario Villalta.
Il soggetto va e viene dentro le particelle paesaggistiche, sempre meno “elegiache” (da qui il trauma più volte ripreso si fa meditazione e struttura) e si rifrange nelle onde aggressive del mondo in rivolta.
E altrettanto preziosa si rivela l’appendice, che ospita fra l’altro alcuni appunti che fungono da autocommento, come per una lirica intitolata Trasfigurati palazzi (un passaggio:
Nude spire di strade s’attorcigliano / ai colli acuti, gli ossuti parapetti / attendono il tumulto dei torrenti.
Esempio di ultra-naturalismo, nel quale si celano, pur sempre evocandoli, i colori e i suoni i della guerra, quasi per attutirne gli effetti catastrofici sul paesaggio dell’uomo.
Nei versi di Zanzotto la più astratta accensione metaforica è il più spericolato esperimento linguistico sono segni ineludibili della Storia.
In Andrea Zanzotto, proprio come accadeva per Hölderlin, amare il mondo significa anche “abitare il mondo”, entrare in rapporto con il mondo, o come scrive Zanzotto in questo quasi-haiku dell’ultimo di Erratici:
Adempiute promesse, / campi e campi di neve, / nessuno mai potrà aggirare / i vostri orizzonti, le vostre / irrealtà lievi abbordare.
2. Antonella Anedda
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Sono la superficie, il dettaglio, il punto, in cui lo spazio e gli uomini si incontrano, il corrugamento degli atlanti, i soggetti di Geografie di Antonella Anedda. Invito, riflessione sull’esistenza, certo, ma meditazione sullo spazio antropizzato, che da Lucrezio arriva a Leopardi, Montale e Zanzotto.
La prosa si fa poesia e la poesia si fa prosa, come accade in Residenze invernali, del 1991. La cronaca, la riflessione scaturita da libri di vari (filosofici, libri di altri poeti, notizie o versi scaturiti estemporanei) raccontano l’attraversamento di chi è venuto prima, di chi ripartirà presto, di chi resta.
La Mongolia dei grandi spazi e la Finlandia degli innumerevoli laghi, l’equinozio e il vento, le cornacchie e i lupi di Geografie diventano non solo parte del catalogo omerico, lemma o inventario, ma meditazione poetica sul mondo, sulla cronaca (la Pandemia 2020, ad esempio).
Come sempre Anedda sceglie una parola netta. Una parola di pause, stagioni, frammenti di vita, buchi e angoli, “meteorologie del vivere quotidiano”, prospettive il cui contrappunto è segnato da termini che si incrociano, in questo piccolo, intenso dizionario (il primo lemma è Considera – parola così, etimologicamente, vicina alle costellazioni – l’ultimo è Ricominciamo).
Niente è dato per certo, niente è sicuro. Non esistono appigli, né sicurezze. Le definizioni, le etimologie, le riflessioni sembrano provvisorie. Dal quotidiano affiorano pensieri antropologici, ‘da poeta’, ragionamenti, scorci, in cui l’uomo è superfluo e resiste all’Indifferenza della Natura. Riflessioni che sembrano ampliare quelle di Zanzotto (di Meteo), ma anche di Elias Canetti o di Johan Turi, Philippe Jaccottet o Tomas Tranströmer o Birgitta Trotzig.
È questa linea rossa (il catalogare la realtà, ad esempio, una parola aguzza) che fa di Geografie il momento finale, almeno per adesso, iniziato con Il catalogo della gioia e continuato con Cosa sono gli anni, La luce delle cose. Immagini e parole nella notte (2000), La vita dei dettagli. Scomporre quadri, immaginare mondi (2009).
Se in Residenze invernali (1992) Anedda suggerisce come trovano quiete le anime, in Salva con nome (2012) come emergono le intermittenze da anfratti domestici e mnemonici, in Notti di pace occidentale (1999) è il corpo ad essere perimetro, scure, dopo essere affiorato dal ‘buio’.
3. Milo De Angelis
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È una geografia dell’assenza, che ricorda molto il Rainer Maria Rilke di Orfeo, Euridice, Hermes quella descritta da Milo De Angelis, in Linea intera, linea spezzata.
L’io vaga per periferie, medita il suicidio:
ho preparato tutto, ho concluso i miei compiti, cancellerò / ogni traccia sul computer, fogli, agende, tutto finirà nel nulla e non / chiedo perdono a nessuno, non lascio biglietti, lascio soltanto / una grande ciotola d’acqua e nove scatole per Luna
così vicino al Pavese del congedo, ma anche a quel:
non c’è stato trapasso, malattia, agonia, angoscia. Lei non ha lasciato la città che ha preso […] è qui anche se non si offre ai miei sensi, stavolta, nemmeno alla mia vista. E non mi permette di farle una carezza sui capelli ancora biondi, forse. Mi tolgo le scarpe, la giacca mangio i calzoni e bretelle. Scusami Tuti
che si legge in Dissipatio H. G. di Guido Morselli), nella voce «dispersa nelle stagioni», riconosce la voce amata che dice “vieni qui, presto, prima dell’ultimo volo”.
Come nell’ultimo Montale, l’Io si trova a vagare tra un mondo dei vivi e delle ombre.
Gira per bettole, bar, sale da bigliardo, segue i tratti dei tram, alla ricerca di un’Euridice fin troppo umana, che sembra possibile afferrarla
l’eco di una corsa che finisce qui, / l’attimo che prolunghi fino all’ultima fermata.
In un’intervista il poeta afferma:
Siamo lì, sul ciglio, guardiamo in basso e non vediamo il fondo. Guardiamo davanti a noi e non vediamo l’altra sponda. Ci guardiamo alle spalle e non troviamo più la via che abbiamo percorso. Non possiamo più tornare indietro. Dobbiamo saltare, dobbiamo affrontare un pericolo tragico, come dicevi nella tua domanda. Dal silenzio si arriva alla parola compiendo questo salto, rischiando la nostra vita. Un salto mortale, letteralmente
L’ombra della morte appare dominante. Così nella poesia 21 settembre, alcuni elementi, come l’acqua, la barca, l’isola sulla cui «riva si affacciarono i morti», richiamano alla mente L’isola dei morti di Arnold Böcklin.
A pagina 47 troviamo un testo, A.D.E., che è fin una discesa grottesca (ade è infatti il nome di un garage) nel regno dei morti analoga allo sprofondare nell’inconscio (scendo fino in fondo, scendo ancora), dove l’Io poetico incontra il fratello, fissato nell’infanzia:
Oh Puia. Che gioia vederti sorridere! / Sì, fratellino, sorrido: questo è stato il mio tempo, / un tempo di dischetti e figurine, e qui resterò per sempre». In questa dimensione allucinata, in cui i gesti più semplici o gli incontri preludono ad un distacco: «fai con la mano un gesto / che sembrava un saluto ma è un addio.
Versi che sembrano un omaggio al Montale di Tempo e tempi o all’addio di Clizia ne Gli orecchini. I confini tra la vita e la morte, la donna amata, i compagni del liceo e di Università rimangono sospesi sul foscoliano “limitar di Dite”, solo la poesia può riscattarle dal buio in cui sono sprofondate.
Come accade a Gianni Hofer (p. 95), compagno di studi del poeta, la cui memoria si salva solo attraverso la poesia, che amava tradurre e ritradurre. Anche di Federica, nella poesia Pensione Iride, dice all’Io lirico che non uscirà più dalla stanza, ancorata per sempre a quel luogo; mentre Lauretta rimane per sempre perduta tra i corridoi di qualche casa di cura (il cui ingresso segue ad un cortile con “lettighe ed ambulanze”).
In Autogrill Cantalupa ritroviamo un’altra presenza cara che appartiene al passato:
la prima creatura amata sulla terra
e che rimane “ferma in cima alle scale” in un oceano di silenzio in cui spazio e tempo si annullano, giunto il personaggio lirico all’incontro con «il calendario di se stessi». Non mancano, come in tanta poesia di De Angelis, il gesto atletico, la concentrazione sull’evento sportivo. Nello sport, nel biliardo o nel bowling, nel calcio o nella corsa la purezza di un gesto atletico equivale alla purezza di un verso ‒ cosa che il poeta ricorda nella poesia Exodus (II) ‒ ed entrambe si congiungono alla suprema delle discipline, il morire: il «morire giovane» così amato dai classici.
4. Bernardo Bertolucci
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Con In cerca del mistero, di Bernardo Bertolucci – premio Viareggio-Rèpaci opera prima nel 1962, rieditato da Garzanti, a ottant’anni dalla nascita del regista, morto nel 2018 – la geografia si fa moto continuo, oltre che romanzo familiare.
Bertolucci, che si nutre della poesia del padre Attilio, fa della famiglia, delle donne amate, dei colli parmigiani e dei piccoli eventi della quotidianità i soggetti da interrogare.
Per questo In cerca del mistero è viaggio negli affetti; l’influenza di Pasolini si modo nel modo in cui i paesaggi d’Appennino si contrappongono a Roma
una città non mia, eppure\ mi travolge un amore.
Parma è già diventata la nostalgia rispetto alla caotica Capitale:
Anch’io covo, in ammenda / della mia infanzia felice / negli spazi di Parma, un poco orrenda / una cosa, una radice / parassita, nata nel presepio / ineffabile della mia famiglia.
C’è già il cinema nelle immagini evocate dal futuro regista:
Come se fosse sola tra sé parla / e mentre si allontana ansima ancora / Per la sua voce stupita, per la sua svelta andatura / è più dolce lasciarla che incontrarla.
5. Alberto Bertoni
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Il viaggio e la peregrinazione poetica si fanno quiete, limite, la “geografia di una stanza” memoria incerta (basta ricordare dell’autore Ricordi di Alzheimer) in Alberto Bertoni de L’isola dei topi. Molti i rimandi a Paul Celan, Melville, Larkin, Vittorio Sereni; molti i versi interrotti da enjambement o dall’uso di assonanze, consonanze e rime.
Gli insetti, i volatili, i topi (vicinissimi a Franz Kafka e al fumetto Maus di Art Spiegelman) sembrano avere una carica vitale anche da morti, ricoperti di larve o pronti conquistare il mondo.
Mi piace immaginarli / nel vibrare sciolto / di ogni muscolo del corpo / circospetto ma pronto / al più rapido scatto / faccia a faccia / prima o dopo / il nostro ego scosso / e loro.
Ciò che affascina, però, è la capacità di accogliere e di far convivere il cosmo nella casa, da cui è guardata la complessità dell’universo umano, ciò che è misurabile con ciò che è lontano, la meraviglia e la tristezza.
In particolare, nell’ultima sezione, Was war, la presenza del topo diventa quasi opprimente, asfissiante, e l’animale passa da correlativo-oggettivo dell’infanzia del poeta (“le pantegane rossicce” che si muovono tra le canne in Passaggio a livello) a simbolo del male assoluto, di tutto ciò che di negativo può esserci.
Brindisi e dediche è la sezione più leggera dell’intero libro, in cui l’indagine metafisica è accantonata, vengono in mente ora la lirica greca arcaica con la sua dimensione simposiale, ora l’ultimo Montale, con l’ironia amara e disincantata di Satura o del Quaderno. Si passa da un testo come In morte di Ezio Raimondi al “divertissement”, in assai cupo, di Ad Auschwitz. Ma è proprio in questa sezione che emerge tutta la colloquialità che ha caratterizzato la poesia di Bertoni, a partire da Lettere stagionali (1996, Book).
Avvistamenti è forse la sezione più complessa, in cui tematiche importanti, come memoria e morte, trovano ampi spazi, e si realizzano al meglio nel duetto “sepolcrale” di Verghina e Una tomba etrusca, che è uno degli snodi più interessanti del libro, in cui il rapporto tra passato e presente, tra morte e vita si concretizza nella constatazione del mutare delle cose, della costatazione che l’uomo è immerso in quel fluido mutare.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Cinque poeti italiani contemporanei da leggere e riscoprire
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