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Recensioni di libri

Resta quel che resta di Katia Tenti

Piemme, 2022 - Un grande affresco corale dipanato in più di sessant’anni di storia, dove più nuclei familiari, gli Egger, i Gasser, i Marchetti, i Ceccarini, i Galli e i Ranieri, portano in scena i loro diversi punti di vista.

Alessandra Stoppini
Alessandra Stoppini Pubblicato il 06-06-2022
Resta quel che resta

Resta quel che resta

  • Autore: Katia Tenti
  • Genere: Romanzi e saggi storici
  • Categoria: Narrativa Italiana
  • Casa editrice: Piemme
  • Anno di pubblicazione: 2022

Resta quel che resta (Piemme 2022) è il nuovo romanzo di Katia Tenti, che per anni si è impegnata nell’approfondimento dei fenomeni di devianza sociale e, dopo essersi occupata di cultura, di teatro e di arte contemporanea, ha scelto di dedicarsi alla scrittura.

“Heimat”, vocabolo tedesco che significa patria, intesa come tutto ciò che costituisce lo spirito, le radici, l’identità di un popolo. L’autrice, nata a Bolzano dove vive e lavora, conosce bene il significato della parola “Heimat”, perché è nata in una terra di confine, di frontiera, multiculturale, dove si parlano tre lingue: tedesco, italiano e ladino. Una regione che ha nomi diversi a seconda di chi la definisce: Südtirol per gli autoctoni, Alto Adige per gli italiani, Sudtirolo per i politicamente corretti. Infatti, nel 1919, dopo la fine della I Guerra Mondiale, Bolzano, insieme al resto dell’attuale provincia autonoma di Bolzano, venne annessa all’Italia. Nel 1922-1923, con l’avvento del fascismo, il territorio di Bolzano venne massicciamente italianizzato.

Come sottolinea la stessa autrice: “La realtà locale doveva essere sradicata a favore degli italiani vincitori”, ma, paradossalmente, in questa situazione non hanno pagato solo i sudtirolesi di lingua tedesca, che si sono visti privare di molti dei loro diritti, ma anche gli italiani, come la famiglia di Katia Tenti, giunta in questa terra di confine negli anni Quaranta del Novecento, attirati dalla propaganda fascista che paragonava l’Alto Adige alla Terra Promessa.

Ecco dunque come questo coinvolgente romanzo, dedicato “A Fabrizio Francia”, diventa un grande affresco corale dipanato in più di sessant’anni di storia, dove più nuclei familiari, gli Egger, i Gasser, i Marchetti, i Ceccarini, i Galli e i Ranieri, portano in scena i loro diversi punti di vista. Perché sia gli autoctoni sia gli italiani hanno pagato lo stesso prezzo, considerato che la convivenza non è stata sempre facile.

“A quattro anni Max manifestava evidenti sintomi di stranezza”.

Bolzano. 1925. La famiglia Egger ormai aveva compreso che un abisso separava il piccolo dalla normalità, abisso che mese dopo mese si faceva sempre più profondo. Max camminava in modo scomposto, avanti e indietro, senza meta, sembrava non badare ai rumori, anche a quelli forti, come se fosse sordo o quasi, ma reagiva a vibrazioni e movimenti bruschi con un terrore sproporzionato. Non solo: dalla sua bocca uscivano versi gutturali e indecifrabili, non c’era nulla da fare, Max era un bambino “disturbato”, bello fuori e brutto dentro. Ma non era solo l’anormalità di Max a rendere dolorosa l’esistenza di Lene ed Erwin, ex sudditi del defunto Imperatore Franz Joseph. L’aria che tirava non era delle migliori, inutile negarlo. Gli Egger e molti altri come loro si erano ritrovati cittadini del Regno Sabaudo. Se Lene desiderava tornare a vivere a Vienna, Erwin era irremovibile. Lui, uno degli abitanti più ricchi e stimati di Bolzano, era austriaco, sudtirolese, legato alla “Heimat”. L’identità era insita nella propria anima.

“Vuoi restare qui? A vedere i nostri figli costretti a studiare il tedesco nelle catacombe? A imparare l’italiano? A diventare italiani?”

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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Resta quel che resta

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