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Recensioni di libri

Quasi una fiaba di Nadia Semeja

Talos editore, 2016 - È un coinvolgente itinerario nella vita dell’autrice, frammischiato a voli onirici, fiabe, situazioni surreali, pensieri, meditazioni. Ne emerge un quadro composito, non diario privato ma tracciato di vita in cui tutti possono specchiarsi e trovare senso.

Graziella Atzori Pubblicato il 21-06-2021
Quasi una fiaba

Quasi una fiaba

  • Autore: Nadia Semeja
  • Categoria: Narrativa Italiana
  • Anno di pubblicazione: 2016

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Che il confine tra fantasia e realtà sia tanto sottile quasi da non esistere, per gli artisti, si sa, ed è un bene; diversamente senza la loro percezione allargata non avremmo modo di sondare la nostra anima, portare alla luce le zone oscure, evolvere e sviluppare quella “canoscenza” privilegiata da Dante.
Il titolo di questo libro, Quasi una fiaba di Nadia Semeja (Talos editore, 2016, pp. 289), con prefazione di Livia de Savorgnani Zanmarchi e introduzione di Claudio Grisancich, vuole appunto sottolineare il binomio ragione-immaginazione. È un coinvolgente itinerario nella vita dell’autrice, frammischiato a voli onirici, fiabe, situazioni surreali, pensieri, meditazioni. Ne emerge un quadro composito, non diario privato ma tracciato di vita in cui tutti possono specchiarsi e trovare senso.

Accanto a pregevoli fiabe, come quella della castagna che lascia l’albero per tentare l’avventura esistenziale, adatta sia ai ragazzi che agli adulti, in queste pagine scorrevoli la scrittrice compie incursioni nella Storia, nelle sue tragedie. Il tono narrativo allora si fa drammatico, carico di nobiltà d’animo e forza morale, stoica che commuove; è monito per non cadere più in quegli inferni. Il padre di Semeja venne internato a Dachau, durante la Seconda guerra mondiale. La testimonianza del lager è di prima mano, cronaca atroce dello sterminio. È l’uomo a parlare, dando al vissuto la forza espressiva della verità:

"Fui assegnato alla baracca numero 17 e, in seguito, alla 25. Il mio numero di riconoscimento non me lo ricordo e nemmeno voglio ricordarmelo. […] Alle cinque del mattino ci svegliavamo con l’urlo delle sirene e cominciava subito la lotta per la vita. […] In cortile, tra una baracca e l’altra, c’era un reticolato lungo il quale dovevamo allinearci in fila per dieci, un po’ distanziati l’uno dall’altro, ad aspettare anche per un’ora che venissero a contarci. Faceva freddo, tanto freddo e, ogni tanto, qualcuno crollava a terra. I morti venivano ammucchiati lungo un muretto e, alla conta finale, la somma tra i cadaveri stesi e quelli tremanti in piedi doveva sempre tornare. Altrimenti erano botte per tutti. […] nei pressi della stazione ferroviaria di Monaco. […] Il nostro compito consisteva nel sistemare le rotaie che erano state fatte saltare dai continui bombardamenti notturni degli americani e degli inglesi […] Le rotaie che dovevamo trasportare erano molto pesanti […] Il disgraziato che vacillava e cadeva veniva subito duramente punito e, se non ce la faceva più a rialzarsi, veniva eliminato sul posto. […]
Ora ricordo anche il numero con cui a Dachau mi chiamavano all’appello, mi urlavano ordini, mi picchiavano: 112545.”
(testo raccolto dalla figlia Nadia Semeja ed esposto a Dachau nel museo del lager.)

Purtroppo la Storia quasi mai è maestra di vita: oppressione, dittatura, genocidio fanno sempre parte del vissuto dei popoli. L’animo umano non cambia.
L’autrice trova compensazioni al dolore nella contemplazione della natura, nell’immersione nel nostro mare azzurro impagabile. A Trieste il mare è una divinità, il primo contatto dell’anno un rito.

Gli animali, uccelli e gatti, nel racconto sono fratelli dispensatori generosi d’affetto, in una visione di amore universale, pace e diritto alla vita per tutte le specie esistenti.
Dicevo surreale. Anche tale registro è giocato egregiamente nella scrittura. Semeja ha lavorato nel Palazzo di Giustizia, sperimentando quanto sia relativa e carente la giustizia umana. Che libertà, poi, fuggire da quelle stanze, volare nuda altrove, metafora esilarante:

"Cominciò lanciando in aria le scarpe. Tolse la gonna, la maglia e, un po’ alla volta, tutto il resto degli abiti. […] Il suo collega […] mormorava: «È impazzita, è impazzita…» […] Si girò verso i costernati colleghi […] fece una piroetta e con un ultimo sberleffo, se ne volò via in un dorato sfarfallio, a cavallo dell’arcobaleno.”

Il primo amore, gli affetti familiari sono rivisitati con occhio amorevole ma lucido e sincero, non privo di disincanto. Gli avi richiamati alla memoria, come la nonna “lavandera”, lavandaia, assurgono a eroici testimoni della fatica, del coraggio e della dignità.
L’esame di coscienza ha la sua conclusione con un sì alla vita, pieno e caldo. È lo stesso “sì” finale di Molly nell’Ulisse di Joyce, che ha portato Trieste nel cuore, pur dovendo lasciare la città. E molta “triestinità” è catturata in questo libro denso di vitalismo. Di che cosa si tratta? “Triestinità” è un genere letterario coniato a Roma dalla scuola di Moravia. Indica il nostro “morbin”, voglia e gioia di esistere incoercibile, “pazzia” saggia connaturata al popolo triestino, gente di confine capace di risorgere dopo ogni avversa situazione, sempre.

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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Quasi una fiaba

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