Mater Morbi. Dylan Dog
- Autore: Roberto Recchioni
- Genere: Fumetti e Graphic Novel
- Categoria: Narrativa Italiana
- Anno di pubblicazione: 2013
C’è un racconto di Dino Buzzati incentrato sullo statuto pre-mortifero della malattia. Si intitola “Sette piani ed è tra i racconti più angosciosi che lo scrittore abbia mai concepito. Mi è venuto in mente (ri)leggendo un “classico” di Dylan Dog: il “Mater Morbi” di Roberto Recchioni e Massimo Carnevale nella sontuosa edizione gigante di Bao Publishing del 2013.
Per farvela breve: la storia di Buzzati resoconta(va) del claustrofobico scivolare dell’avvocato Giuseppe Corte nei gironi infernali dell’infermità, “Mater Morbi” lo stesso, con l’Indagatore dell’incubo in icastica rivisitazione. Non so quanto arbitraria possa apparire l’associazione, però so di certo: 1) che i rimandi meta-fumettistici costituiscono, ab origine, il tessuto connettivo di Dylan Dog (con Dylan Dog siamo più che mai al cospetto di paraletteratura “colta”); 2) che in “Mater Morbi” il Nostro (de)cade in progress nelle spire della malattia mortale (nel senso esteso, più kierkegaardiano che vi riesce di pensare) e il lettore più fedele con lui. In un percorso traslato di identificazione che sa di autentico magismo letterario. Non lo scopro certo io: Dylan Dog è l’anti-eroe dei fumetti per antonomasia. Una specie di specchio oscuro, catalizzatore delle paure fisiche e metafisiche di ognuno: vederlo messo tanto male in arnese (per una volta nel corpo, oltre che nell’anima), richiama dal rimosso ombre e spettri cui si credeva aver fatto l’abitudine.
In “Mater Morbi”, la sceneggiatura di Roberto Recchioni si (im)pone, in senso letterale, come meccanismo implacabile, che non dà tregua. Sottoponendo Dylan a un tour de force dispercettivo senza soluzione di continuità. A una reiterazione di esperienze borderline, attestate sui confini di vita/morte, attrazione/repulsione, ragione/follia, sogno/veglia, che moltiplicano all’ennesima potenza la caratura fobica, traumatica, tanatologica, del fumetto.
Il tratto grafico, palesemente immaginifico di Massimo Carnevale, mai come nella fattispecie riesce a fare il resto. Illividendo gli scenari, giocando con i campi, i piani e i chiaroscuri, evocando mad doctor dai tratti klauskinskiani e il nome di uno scrittore di fantascienza (Vonnegut), antri oscuri ospedalieri-manicomiali, infermiere da incubo, legioni di malati come progenie dannata, l’esercito dei Tormenti transustanziati in nuovi mostri, un bimbo fantasmatico per la sua familiarità con la morte. Assegnando alla Madre di tutte le malattie (la Mater Morbi da cui il titolo) sembianze da eroina del fumetto sexy, in quanto rimando al sotteso potere attrattivo della Patologia. Il fatto poi che tra le righe, i temi del fine vita e del testamento biologico vengano inquadrati da focus segnatamente umanisti, non fa che conferire valore aggiunto (valore politico) alla storia.
“Mater Morbi” costituisce, insomma, il capitolo apicale della poetica dylaniana post-Sclavi, il suo grado zero e il punto di non ritorno insieme. Una allucinata suite sul dolore, un incubo a occhi aperti, un memento mori spietato, lirico e cupissimo, ispirato dal rimosso archetipico, e consustanziale a un sentire perturbante che accompagna la lettura dall’inizio alla fine. In una sola parola: capolavoro.
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