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Recensioni di libri

Lettera sulla felicità di Epicuro

Epicuro e la sua etica eudemonistica (da non confondere con l’edonismo) ebbe vasto seguito nel mondo greco, a cavallo tra III e IV secolo a.C.

Graziella Atzori Pubblicato il 09-03-2021
Lettera sulla felicità

Lettera sulla felicità

  • Autore: Epicuro
  • Genere: Classici
  • Categoria: Saggistica
  • Casa editrice: Einaudi

Chi ricorda i piccoli libri da mille lire, editi da Baraghini? Sono stati gloriosi, portando la cultura per le strade fino a chi poteva spendere poco. Erano libri amati da leggere d’un fiato. Fra i tanti ricordo Lettera sulla felicità di Epicuro, con testo greco a fronte (Stampa Alternativa, 1992, pp. 29) che ebbe enorme successo. Infatti chi non sarebbe ansioso di ascoltare parole dedicate alla felicità? Il libro è tradotto da Angelo Pellegrino e contiene in appendice anche la vita del filosofo, scritta da Diogene Laerzio. È stato veramente un dono...

Epicuro e la sua etica eudemonistica (da non confondere con l’edonismo, che ricerca soltanto il piacere immediato) ebbe vasto seguito nel mondo greco, a cavallo tra quarto e terzo secolo a.C., nonostante fosse avversato dai politici e dai filosofi. Tra questi ultimi ricordiamo tristemente gli stoici, che incendiarono le case degli epicurei e li esiliarono. La "colpa" imperdonabile degli epicurei non era tanto il voler vivere felici, lontani dalle passioni devastanti e fonti di infelicità, quanto il non interessarsi di politica, vivere in modo oscuro fuori dalle contese. Assomigliavano molto agli hippie, nel tentativo di ricreare un Eden perduto, con esclusione delle droghe e da qualunque eccesso. Ma essi sono sempre stati accusati di sensualità morbosa, a torto, come si evince da queste righe luminose:

"Quando dunque diciamo che il bene è il piacere, non intendiamo il semplice piacere dei goderecci, come credono coloro che ignorano il nostro pensiero, o lo avversano, o lo interpretano male, ma quanto aiuta il corpo a non soffrire e l’animo a essere sereno.
Perché non sono di per se stessi i banchetti, le feste, il godersi fanciulli e donne, i buoni pesci e tutto quanto può offrire una ricca tavola che fanno la dolcezza della vita felice, ma il lucido esame delle cause di ogni scelta o rifiuto, al fine di respingere i falsi condizionamenti che sono per l’animo causa di immensa sofferenza.
Di tutto questo, principio e bene supremo è l’intelligenza delle cose.”

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Ciò che più conta, appare chiaro, è l’intelletto che si pone a guida delle passioni. Certo Epicuro non fa i conti con l’inconscio, con “l’ombra” e i suoi istinti estremi, sembra aver superato le asperità del cuore. Non condivide la "povertà" psichica e la sofferenza di ogni tipo che Cristo abbraccia. Eppure similmente a Cristo e alcuni secoli prima di lui egli tratta tutti gli uomini da amici, comprese le donne e gli schiavi, ammessi nel suo giardino famoso. Nel Vangelo leggiamo "vi ho chiamati amici, non servi" (Gv 15,15) ed è qui che cristianesimo ed epicureismo si toccano e sono affini. Ma anche in un altro punto, lì dove il versetto evangelico troppo trascurato recita: "voi siete dèi" (Gv 10,34); nella "lettera" a Meneceo troviamo scritto in chiusa:

"Medita giorno e notte tutte queste cose e altre congeneri, con te stesso e con chi ti è simile, e mai sarai preda dell’ansia. Vivrai invece come un dio fra gli uomini.”

Ecco lo stato paradisiaco realizzato, simile all’altro detto: "il regno di Dio è tra voi" (Lc 17, 20-21), caro agli ebioniti, la prima corrente cristiana avversata in seguito dalla religione istituzionalizzata. Anche per gli ebioniti la regola di vita, come per Epicuro, era “vivere parvo”, essere sobri e parchi.
Epicuro non nega l’esistenza degli dèi, afferma che essi non si interessano a noi umani. Forse la negazione della Provvidenza fece incavolare gli stoici, che invece vi credevano fermamente. Anche Cicerone avversò Epicuro e in seguito i cristiani perpetrarono l’intolleranza verso un pensiero che ci vuole vicini agli dèi, sebbene non eterni come loro. Ma non dobbiamo dolercene, scrive Epicuro in questa lettera pacata e serena, in quanto la morte non è, o non dovrebbe essere un problema:

"La morte non costituisce nulla per noi, dal momento che il godere e il soffrire sono entrambi nel sentire, e la morte altro non è che la sua assenza. […] Quando noi viviamo la morte non c’è, quando c’è lei non ci siamo noi.”

Va notato che il filosofo non pronuncia la parola anima. Egli si riferisce all’io fenomenico che vive attraverso i sensi. Certamente con il dissolvimento del corpo questo io abituale e carnale non esiste più, su ciò anche ogni spiritualista non può che essere d’accordo. Ma quale sarà il destino dell’anima non carnale? Se esiste l’anima... La lettera non tocca la questione, ma si potrà trattarla in seguito, attraverso altre letture.

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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Lettera sulla felicità

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