La morte della cultura di massa
- Autore: Vanni Codeluppi
- Genere: Filosofia e Sociologia
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Carocci
- Anno di pubblicazione: 2024
Tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, la collana Urania (Mondadori) ha portato in edicola i romanzi più significativi del genere Fantascienza. Più o meno nello stesso periodo il cinema italiano popolare era un’industria che spaziava fra i generi, con film di valore medio e di discreto successo commerciale. Lo stesso valeva per la RAI: sceneggiati come La cittadella oppure E le stelle stanno a guardare non erano capolavori, ma accontentavano i gusti dello spettatore comune, avvicinandolo alle opere letterarie cui spesso si ispiravano. Tre esempi positivi di midcult, finché è durato. Dopo di che la deriva culturale, a partire dall’alba degli idiotizzanti anni Ottanta: i media televisivi crescono esponenzialmente e si americanizzano, con spot, intrattenimento, banalità a non finire (secondo diktat berlusconiano). La trappola alienante della distrazione di massa è già scattata. I co-agenti fenomenici dell’apocalisse culturale in atto sono sintetizzabili in numero di tre: si chiamano Netflix, marvelizzazione del prodotto cinematografico e culto del banale. Il sociologo Vanni Codeluppi ne ha rintracciato genesi e proliferazione, analizzando le ricadute – intellettuali, comunicative, e non soltanto - della loro affermazione in un saggio acutissimo dal titolo tranchant: La morte della cultura di massa (Carocci editore, 2024).
E dire che il superamento dello schematismo culturale (cultura “alta” e cultura “bassa”) era stato difficile, lungo e articolato. Soltanto intorno alla metà del Novecento si è giunti, infatti, al riconoscimento di una “cultura di massa”, favorita dal consolidarsi del processo d’industrializzazione e dallo sdoganamento teorico di artisti e studiosi come Andy Warhol e Umberto Eco, per citarne due di fama storica, operanti di là e di qua dell’oceano. In maniera esponenziale, giornali, cinema e televisione (soprattutto) veicolavano, dal canto loro, l’affermarsi di una vera e propria popolarizzazione della cultura.
Il primo studioso italiano a occuparsi in maniera approfondita di questi temi è stato Gillo Dorfles. Ha tenuto nel 1955 negli Stati Uniti alcune conferenze che ha pubblicato tre anni dopo nel volume Le oscillazioni del gusto, nelle quali ha sostenuto che il midcult può essere visto come l’unica forma d’arte (letteraria, musicale, figurativa) che abbia la capacità di raggiungere un elevato livello di notorietà e di essere pertanto ampiamente trattata e valorizzata dai giornali e dagli altri media.
L’attualità comprova come tempora e mores cambino col cambiare delle stagioni: disparate regressioni intellettuali dopo sanciscono difatti la morte per asfissia della cultura di massa, peraltro in parallelo all’estinguersi della classe media. Come si legge a pagina 57 del saggio di Codeluppi:
Si potrebbe pensare che gli effetti determinati dalla globalizzazione abbiano quella tendenza verso la frammentazione di cui abbiamo appena detto. Di sicuro, i consumi culturali erano tradizionalmente legati alla specifica cultura di ogni paese e la globalizzazione, insieme all’industrializzazione, ha fatto sentire in misura crescente i suoi effetti su questo piano. I consumi culturali hanno cominciato a presentarsi a volte nella forma di fenomeni che dilagano sull’intero pianeta, come ad esempio la serie dei libri e film di Harry Potter, i film sui supereroi delle Marvel o quelli di grande successo come Barbie.
Ne discende un’omologazione culturale verso il "basso", una stereotipia produttiva che appiattisce i prodotti culturali entro parametri di esclusivo consenso commerciale, a scapito di quella peculiarità mediale del prodotto, portatrice di dignità e valore propri. L’esempio dello scadimento dei palinsesti televisivi lo dimostra. A qualsiasi latitudine, una continua litania di melensaggini, beghe da cortile, gossip, reality show, casi di nera, fiction e comicità per ritardati, che ha quasi del tutto soppiantato i contenuti culturali. Dalla televisione pedagogica degli anni Cinquanta-Sessanta si è passati insomma ai media diseducativi che feriscono a morte la cultura di massa. Assecondando la connaturata tendenza al trash, alle prurigini, e al cattivo gusto delle masse.
La morte della cultura di massa gira e rigira dunque attorno al de profundis culturale collettivo. Lo fa in maniera attenta, sacrosanta, intelligente, e senza annoiare. Inquietare forse sì, in quanto attraverso il declino della midcult enuncia senza infingimenti il declino dei tempi.
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