La Bohème
- Autore: Henri Murger
- Genere: Musica
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Elliot
- Anno di pubblicazione: 2015
Scènes de la vie de bohème, questo il titolo originale del romanzo di Henri Murger La Bohème (Elliot, 2015, trad. A. Panzini), pubblicato a puntate come appendice a un giornale satirico, “Le Corsaire-Satan”, fra il 1845 e il 1849, difficilmente può essere definito un romanzo.
Non si tratta, però, neppure di una raccolta di racconti: sono, in effetti, vere e proprie “scene”, bozzetti, episodi, non sempre cronologici e non sempre consequenziali, che raccontano le storie e, soprattutto, gli amori dello stesso gruppo di artisti di stanza a Parigi.
Potremmo quasi definirle una sorta di “cartoline dal passato”, tenui come acquarelli e fortemente autobiografiche: fu infatti alla propria vita di qualche anno avanti che Henri Murger si ispirò per dipingere, con un affascinante misto di ricordi e inventiva, la povera ma gaudente giovinezza di quattro aspiranti artisti e delle loro donne.
Molti lo sapranno già da tempo, altri l’avranno intuito leggendo queste prime righe: stiamo parlando del libro sul quale si basarono Luigi Illica e Giuseppe Giacosa per sviluppare il libretto della Bohème di Giacomo Puccini.
Il soggetto era evidentemente appetibile, visto che, solamente un anno dopo quella di Puccini, ebbe la sua prima rappresentazione la versione di Ruggero Leoncavallo, su libretto scritto da lui stesso, non senza una forte polemica con lo stesso Puccini, accusato di avergli “soffiato” l’idea.
Bisogna dire, a onor del vero, che il libretto di Leoncavallo ricalca molto più fedelmente l’opera di Murger di quanto non faccia quello di Illica-Giacosa: ma è evidente che l’immortale melodia pucciniana, conquistando da subito orecchie e cuore del pubblico, lasciò ben poco spazio alla versione del collega livornese, ancora oggi molto meno eseguita.
Stabilito questo, vi sono diverse differenze fondamentali fra il libro di Murger e l’opera pucciniana.
La principale riguarda il personaggio di Mimì, che, giova ricordarlo una volta di più, non è una fioraia: basterebbe ascoltare con attenzione le parole della sua celeberrima romanza per apprendere che si tratta di una ricamatrice, mentre per Murger la ragazza fabbrica fiori di stoffa. Ma al di là di questi particolari trascurabili, la Mimì di Murger non ha niente della dolce, ingenua fanciulla talmente innamorata di Rodolfo da abbandonare il viscontino che avrebbe potuto salvarla: questa Mimì è, anzi, più vana e approfittatrice della stessa Musetta.
Lascia il suo amante per rincorrere regali e denaro, salvo poi tornare a chiedere ospitalità quando si sente in fin di vita. Neppure la celeberrima scena della morte di Mimì ricalca il suo personaggio, ma si deve all’unica “scena” del tutto avulsa dal resto del libro: quella che racconta la storia di Giacomo (singolare coincidenza) e Francine. Mimì morirà invece sola e trascurata dal suo ex amante in una corsia d’ospedale, così come nella vita reale era morta la Mimì un tempo amata da Murger.
Ed è curioso apprendere che nel libro è Schaunard a vendere il proprio vestito di panno per trovare soldi per curare la fanciulla: nell’opera è invece Colline a sacrificare la sua “vecchia zimarra” con una celeberrima romanza.
È chiaro che la riduzione drammaturgica di un’opera letteraria comporta necessariamente una forte sintesi, diversi tagli (anche di personaggi: in particolare due, Eufemia e Barbamosca, comunque presenti nella versione di Leoncavallo) e varie libertà: eppure, Illica e Giacosa hanno saputo ben cogliere e riportare il tono scanzonato, ironico, cinico e malinconico della narrazione di Murger.
Sebbene si tratti di un romanzo piuttosto sui generis, queste scene hanno un loro epilogo: un colloquio fra Marcello e Rodolfo, ormai benestanti ma ancora senza compagne, nel quale i due accettano amaramente la fine della giovinezza e della spensieratezza, e l’ingresso nell’età “della ragione”.
Il teatro lirico ha totalmente cancellato questo finale, colpevole, forse, di non essere abbastanza “scenografico”: ma possiamo ritrovarne un accenno in una triste e bella canzone di Charles Aznavour, La Bohème appunto, la cui versione italiana si conclude con “un gran signore che muore di dolore e che non piange mai”. Esattamente come i due protagonisti…
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