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Recensioni di libri

L’odore del sangue di Goffredo Parise

L’odore del sangue è un libro strano, corposo, dove hanno spazio la violenza, il sesso, le ossessioni della gelosia. Da questo libro fu tratto un film di Mario Martone.

Vincenzo Mazzaccaro
Vincenzo Mazzaccaro Pubblicato il 26-03-2013

20

L'odore del sangue

L’odore del sangue

  • Autore: Goffredo Parise

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Goffredo Parise guidava spericolatamente e amava andare a zonzo la notte con la macchina, come Pasolini. Solo che quest’ultimo era a caccia di adolescenti, Parise a caccia di sigarette, con i suoi tre pacchetti al giorno. La salute non l’aiutò: nato a Vicenza nel 1929, a cinquant’anni era già malato: troppo fumo. Nel 1979 ebbe un infarto, poi si riprese, partì per il Giappone, scrisse L’eleganza è frigida, ma al ritorno stava malissimo e iniziò con la dialisi. Proprio nel 1979 Parise cominciò a scrivere il suo ultimo libro L’odore del sangue. Un libro strano, corposo, dove hanno spazio la violenza, il sesso, le ossessioni della gelosia. Un testo che ricorda lo straniamento sessuale di un libro che lui aveva molto amato, Gli Indifferenti (del 1929) di Alberto Moravia.

Parise era un burlone, uno che scherzava con gli amici (al povero Gadda faceva trovare dei disegni sconci, che l’ingegnere accettava mugugnando), ma l’essere invalido gli tolse la voglia di giocare.

Uscito dalla clinica, Parise sembrava già pronto per un’opera finale, definitiva. L’odore del sangue nacque come una psicoterapia sulle sue paure e ossessioni. Cesare Garboli, che scrisse una prefazione sull’opera, racconta che appena ultimato, Parise avvolse il tomo in una custodia, lo sigillò, lo chiuse in un cassetto.
Poi lo riprese in mano nel 1986, senza fare correzioni, d’altronde non c’erano paratassi e frasi lasciate a metà: era stato scritto senza rileggerlo, ma era formalmente perfetto, tranne errori di battitura e ripetizioni, in ogni caso c’è sempre stato un forte dibattito letterario sulla datazione reale della stesura.
Prima di dare un piccolo breviario della trama, voglio ricordare che da questo libro fu tratto un film di Mario Martone, del 2003, con Michele Placido e Fanny Ardant, che credo, nel mio piccolo, sia una delle cose meno riuscite di Martone cineasta.

Pubblicato postumo, il romanzo parla di un marito di cinquant’anni, che ha sempre tradito la moglie Silvia, della stessa età, bella e seducente e dell’improvvisa gelosia che il narratore prova per Silvia che si è innamorato di un picchiatore fascista giovanissimo (siamo nella Roma del 1979).
Le prime pagine danno il centro pulsante della scrittura, la figura di Silvia. Riporto proprio l’incipit per capire come parla della moglie.

"Ho guardato, anzi visto Silvia per la prima volta quando ho avuto la sensazione che mi tradisse. È questa una reazione diffusa, anzi banale, un po’ meno banale quando ciò accade a un uomo di cinquantacinque anni come me per una donna di cinquanta come Silvia. È vero che Silvia è ancora quello che si dice una bella donna, “ben tenuta”, e anche piena di fascino, è anche vero che si può essere gelosi a tutte le età come dimostrano le cronache ma nel mio caso non si trattò di gelosia, cioè di una passione antica come il mondo, bensì di curiosità, anch’essa una passione terribile ma di pochi e molto moderna. Sono un solitario, un saturnino, come dicono alcuni, e tendo alla fuga, a quella condizione di solitudine selvatica di certi animali. In particolare tendo a fuggire da lei nonostante la ami molto, anzi proprio perché la amo. Lei lo sa e per vent’anni di matrimonio mi ha sempre visto fuggire e anche tradirla: non con la rassegnazione tipica delle mogli sottomesse e sotto sotto interessate, ma, a sua volta, con la trepidazione delle donne innamorate e [così romantiche da] considerare la fuga della persona amata come una sorta di romantica irragiungibilità, di mistero, dunque di fascino."

Un inizio di grandissima compattezza: la descrizione della moglie, il carattere del narratore, il discorso della gelosia.
Il narratore, che si chiama Filippo, fa lo psicanalista e vive anche con la sua amante, Paloma, perché con Silvia c’è solo sesso “platonico”. Quindi fa la spola tra una casa del Veneto e la Roma violenta del 1979, piena di contrasti sociali e attraversata da giovani senza arte né parte, che spaccano vetri e rubacchiano. Parise gli chiama “i fascisti”.
Silvia si innamora di uno questi ragazzotti, bello, incolto, prepotente e aggressivo, di buona famiglia, uno che pensa solo al suo pisello. L’apologia del fallo. Filippo è ossessionato da questo ragazzo in modo quasi “omosessuale”. Comincia a chiedere a Silvia, in maniera contorta, come sia il fallo di questo ragazzo, quanto grande, come lo usa, come la penetra, quante volte fanno l’amore insieme.
Questo fallo dalla forma ricurva e a scimitarra. Filippo non riesce a non pensare a questo ragazzo: tutto diventa morboso, lui si sente impotente, sente il cuore che pulsa sangue in una perenne tachicardia (l’odore del sangue). Immagina, fa congetture e Silvia diviene l’immagine di una donna del francese Racine.
Cesare Garboli nella prefazione parla di questi pensieri di Filippo e di questo romanzo della ossessione fisica (solo Walter Siti, oggi, ha nei suoi scritti l’amore per i corpi, l’idolatria dei muscoli perfetti)
e scrive

«è un romanzo che ritorna sempre su se stesso. I fatti camminano e intanto si raccolgono tutti all’indietro, nella fissità di una visione. Il Narratore può prevedere, non prevenire gli sviluppi di tutto ciò che accade».

La scrittura è limpida, di grande finezza stilistica, tanto che sembra che Goffredo Parise abbia rubato il ritmo e il linguaggio al suo amico Alberto Moravia.


© Riproduzione riservata SoloLibri.net

Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: L’odore del sangue

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