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Recensioni di libri

Il libro di mia madre di Albert Cohen

Rizzoli, 2008 - Una piccola donna ebrea, rotondetta e regale, “goffa e maestosa”, capace di dedicare non solo la sua stessa esistenza, ma anche l’annullamento della propria personalità ai suoi due unici amori, il marito e il figlio. Il marito sposato per obbedienza e servito con timoroso, biblico rispetto...

Alida Airaghi
Alida Airaghi Pubblicato il 10-12-2015

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Il libro di mia madre

Il libro di mia madre

  • Autore: Albert Cohen
  • Categoria: Narrativa Straniera
  • Casa editrice: Rizzoli
  • Anno di pubblicazione: 2008

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Quante madri nella letteratura di ogni Paese: madri scolpite in versi memorabili, o a cui sono dedicati libri interi (da noi, per citarne alcuni, Camon, De Luca, Sanvitale, Celati; in Austria l’indimenticabile Handke di “Infelicità senza desideri”, quasi che gli autori - tutti gli autori - venissero presi a un certo punto della loro vita dall’invincibile necessità di raccontarsi dalle viscere, dal tremendo e ricattante groviglio di passioni che è la nascita, con la pretesa scandalosa di scandagliare il più assoluto dei rapporti. Raramente tuttavia ci è capitato di leggere in precedenza un tale esaltato o dolente omaggio alla propria madre quale quello scritto da Albert Cohen nel ’54, e ripubblicato in Italia da Rizzoli nel 2008 : “Il libro di mia madre”, titolo essenziale ed esclusivo per un amore essenziale ed esclusivo.
Albert Cohen è un classico della letteratura francese contemporanea, conosciuto e ammirato nel nostro paese solo dopo la tardiva ma fondamentale traduzione di “Bella del Signore”: un narratore lirico, composto e raffinato sulla pagina quanto dilaniato e pungente nello spirito. Scomparve nel 1981 dopo una lunga e affermata esistenza di scrittore e diplomatico. La presenza femminile che viene delineata dal libro è quella di una piccola donna ebrea, rotondetta e regale, «goffa e maestosa», capace di dedicare non solo la sua stessa esistenza, ma anche l’annullamento della propria personalità ai suoi due unici amori, il marito e il figlio. Il marito sposato per obbedienza e servito con timoroso, biblico rispetto

“Il vero amore, vuoi che te lo dica? È l’abitudine, è invecchiare insieme”

il figlio, ineguagliabile capolavoro, in cui si annulla con totale e appagata dedizione.
A lui bambino fa trovare, prima di andarsene al lavoro, accanto alla tazza di caffellatte avvolta in panni di lana, “un disegnino rassicurante che sostituiva il suo bacio”. Alla scapestrata leggerezza di lui adolescente sacrifica gioielli di famiglia, per consentirgli la grandiosità di uno spreco borioso. All’università lo segue da lontano, con trepide preghiere, intimidita e orgogliosa che frequenti la facoltà di legge ginevrina, ammirata da tutto ciò che è svizzero. E quando finalmente il figlio diventa adulto e sempre più importante, attende per un anno intero che lui la inviti presso di sé per due settimane, condiscendente e distratto, infastidito dagli impacci di lei, dalla sua inadeguatezza culturale, dai suoi patetici cappellini e dai vestiti rivoltati per l’occasione.
Con la crudele sfrontatezza del più forte, il figlio fa e disfa programmi di vita e di giornata per misurare sull’incondizionata approvazione della madre la sua fedeltà docile ed innamorata. Ingrato e indifferente come tutti i figli, gioisce di sollievo quando lei se ne va, immagonita ma convinta del naturale destino di solitudine che l’aspetta. Solo alla morte di lei diventa consapevole di ciò che ha avuto e di quello che ha perso: allora la malinconia si fa strazio, la memoria struggimento, il bene goduto senso di colpa. Infantilmente, ma con testardaggine, supplica il ritorno di questa madre ignorante, che chiedeva al figlio scrittore di suggerirle un modello per i biglietti di condoglianze

“Ma non ci mettere delle parole profonde perché sennò si capisce che non è roba mia”

della madre golosa, convinta che lo zucchero non facesse ingrassare perché «mettilo nell’acqua, vedrai che scompare!»; della madre disordinata, che costretta a sistemare in un raccoglitore impostole dal figlio le carte domestiche, infilava le ricevute dell’affitto sotto la lettera F, perché

“ragazzo mio bisognerà metterci pur qualcosa sotto questa benedetta F, e poi in affitto non ci sono forse due F?”

Il figlio cerca un riscatto al suo egoismo giovanile nelle parole, rende eterna nei gesti materni recuperati

“Gli inutili e graziosi colpetti artistici col cucchiaio di legno sulle polpette”

la sua “Gerusalemme vivente, arrivata da un’antica Canaan”, che come tutti «E’ venuta, non ci ha capito niente, se ne è andata», ed ora è lì, «imbronciata nella sua terra malinconica», morta ma vittoriosa perché mai più trascurata, mai dimenticata.

“Nessun figlio sa veramente che sua madre morirà e tutti i figli si arrabbiano e si spazientiscono con le loro madri, quei pazzi così presto puniti”


© Riproduzione riservata SoloLibri.net

Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Il libro di mia madre

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