Il fascino delle solitudini
- Autore: Annie Vivanti
- Categoria: Narrativa Italiana
- Anno di pubblicazione: 2022
Non è facile delineare la fisionomia letteraria di Annie Vivanti, prolifica scrittrice e poetessa, italiana per origini, ma nata a Norwood nel 1868 da Anselmo, patriota mantovano e fervente mazziniano in volontario esilio dopo i moti di Mantova del 1851 e da madre tedesca, Anna Lindau (scrittrice). Leggere Il fascino delle solitudini, sua antologia di scritti in prosa pubblicata per la prima volta nel 1918 e ripubblicata nel 2022 nella Collana le polveri di readerforblind, sarà sicuramente utile a chiunque sia incuriosito dalla fama che riuscì a guadagnarsi non solo in Italia, ma anche in Europa. Scrisse, infatti, sia in italiano che in inglese e di lei si ricorda soprattutto il primo romanzo, The devourers del 1910, pubblicato per Treves in Italia l’anno successivo e tradotto in altre numerose lingue europee: cèco, finlandese, olandese, polacco, romeno, spagnolo, svedese, tedesco e turco. Uno degli ultimi scritti dell’antologia, tra l’altro, ne è proprio la prefazione all’edizione italiana: Una prefazione (I divoratori), illuminante per leggere nella giusta prospettiva alcune scelte narrative dell’autrice soprattutto in relazione alla riscrittura del romanzo nella lingua paterna, mentre quei personaggi che prima erano dei fantocci nelle sue mani prendono man mano il sopravvento e si fanno ubbidire, dirigendo i loro passi dove e come vogliono fino a lasciarla sola piena di malinconia:
Ma ora anche su di loro si è chiusa la copertina; e per me che li ho creati non esisteranno più.
Neppure saprò la loro fine. Queste mie creature, dopo essere state tanto tempo con me, tanta parte di me – ora se ne andranno fuori, sole nel mondo, fra gente ignota che le accoglierà chi sa come!
La raccolta era intitolata originariamente Zingaresca; nell’attuale edizione il titolo sembra idoneo a sottolineare una delle aspirazioni più grandi della scrittrice: la gioia di partire per scoprire cosa si trova al di là una strada bianca e ignota che le si para davanti e vedere luoghi nuovi. La Vivanti, infatti, ebbe una vita intensa, viaggiò molto e visse non solo in Inghilterra e in Italia, ma anche in Svizzera e negli Stati Uniti. Questa gioia si compie pienamente solo quando si riparte dopo l’esperienza fatta, specialmente se si arriva alla consapevolezza che c’è qualcuno che ci aspetta e ci accoglie a braccia aperte dopo il viaggio; perché – parafrasando alcune righe del primo breve racconto dell’antologia – la vita fugge e non sempre mantiene ciò che aveva promesso; perché la gloria è difficile da raggiungere e la gioventù finisce presto e ogni cosa è vana.
Infatti, in Preludio boemo la voce del narratore interno è sicuramente autodiegetica e così si esprime:
«Io sono nata colla passione delle lontananze».
La letizia del “vagabondare” suscita un incantamento di cui è difficile capire il mistero, ma che acquista senso solo se si scopre di essere aspettati. Fatta questa scoperta, il viaggio della scrittura può iniziare e Annie dedica il libro prima a chi la aspettava in quella sera in cui fece questa scoperta e poi, a tutti i suoi lettori:
«E nel giorno del vostro ritorno vi siano degli occhi che spiano la strada, vi siano dei passi che corrono al vostro incontro, delle mani tese, delle braccia aperte, delle voci che dicano nel pianto: «Ti abbiamo molto aspettato».
Con un esordio così sfacciatamente teso alla captatio benevolentiae dei lettori si sarebbe tentati di definire quella della Vivanti come letteratura di basso profilo e la critica letteraria da Luigi Russo a Giuseppe Antonio Borgese, a Matilde Serao fu spesso molto dura nei suoi confronti – come ci informa Nadia Terranova nella Prefazione – ma forse, questo fu il prezzo da pagare per un successo che causava l’invidia di molti. Certo è che la Vivanti dimostra di essere una scrittrice consapevole delle sue capacità e anche dei suoi limiti, come quando ammette, con grande candore e umiltà, che per descrivere il viaggio nel mitico Far West, di cui parla nel secondo racconto Il fascino delle solitudini, bisognerebbe essere poeti davvero e non come è lei alla settima edizione!
Anche questo secondo racconto è autobiografico e certamente non si può rimanere che esterrefatti quando si legge che la protagonista e il marito decidono di avventurarsi nel selvaggio West dopo aver abbandonato una vita completamente diversa: passando da letteratura, giornalismo e avvocatura a provetti allevatori di bestiame; eppure, basta dare un’occhiata alla biografia della scrittrice per far rientrare la scelta nel suo spirito da avventuriera.
D’altronde, si scopre ben presto la seduzione che esercita sull’animo della protagonista il pensiero della grande solitudine, della vita selvaggia, nuova, ignota presente anche in altri racconti non autobiografici, il primo dei quali, La visita a un penitenziario, costituirà il preludio della scrittura di un intero romanzo: Circe. Il romanzo di Maria Tarnowska, protagonista del racconto. La narrazione si sposta nel carcere di Trani, dove la scandalosa contessa è detenuta, dopo un processo nel quale fu ritenuta istigatrice dell’omicidio di uno dei suoi amanti, per riscuotere una cospicua polizza assicurativa.
Così risponde la donna a una domanda della sua intervista su cosa le manca di più in carcere:
«Lo spazio … La distanza… La visione di ciò che è lontano. È terribile, terribile sentirsi lo sguardo chiuso da ogni lato, rinserrato da queste mura, alte, irremovibili, inesorabili!»
L’altro racconto che ci immerge in tali solitudini è Lo scoop, il trionfo giornalistico di Gladys, un’amica di Annie che – per scrivere un articolo sulla facilità di ottenere il divorzio in Dakota – affronta un viaggio lungo e avventuroso per approdare a Georgetown (che non si poteva certo definire città), dove arriva due volte all’anno il commesso viaggiatore del Far West:
«egli arriva in queste solitudini, apportatore di notizie, di mode, di libri, di vizi; atteso e sospirato – vero Lohengrin di tutte le piccole Else della prateria …!».
Dolcissimo lo scritto La storia di Vivien, dove Annie passa dalla pietà e tristezza per un gracile fanciullo, violinista enfant prodige, alla scoperta del talento di sua figlia per il violino, dopo una stupefacente rivelazione, al limite del profetico, sul destino di successo artistico che le toccherà proprio come provetta giovanissima e talentuosa violinista.
Il racconto è anche una dichiarazione d’amore alla musica che unisce madre e figlia e trasporta in mondi incantati.
Quando sul palco Vivien comincia a suonare, Annie stringe le mani e non respira:
Subito il suo sorriso mi cerca. Poi, alzando il violino, ella suona per me!
E la musica incantata ci trasporta entrambe lontano dalla folla, lontano dalla vita.
Ci porta in paesi felici dove le fate passeggiano per giardini risplendenti; dove le bambole non si rompono, dove i fiori non appassiscono, dove i bambini restano sempre piccini e le mamme non piangono mai.
Gli scritti dell’antologia sono molto diversi l’uno dall’altro, non solo perché si passa da un racconto autobiografico spesso diaristico, all’articolo giornalistico, alla fiaba e così via; ma anche per l’attrazione della scrittrice per argomenti e temi molto eterogenei, che diventano oggetto di scrittura.
Emblematico in tal senso è quello intitolato: La scelta dell’argomento, dove Annie è alla ricerca di qualcosa che possa catturare l’attenzione dei lettori, dopo aver ricevuto la proposta di scrivere di letteratura sul giornale («Non era in alcun senso un gran giornale») di un amico. Con tutta l’incoscienza di una principiante che non ha mai scritto articoli, Annie accetta e la sua unica difficoltà si rivela proprio la scelta dell’argomento. Pensa così di scrivere un articolo di critica letteraria, ma non se la sentirà di demolire un poeta che non apprezza, poi si cimenta nella recensione di Liriche d’Amore Indiane per far conoscere Lawrance Hope, poetessa inglese stabilitasi a Lahore che ebbe un infelice destino; poi, passa a lodare il genio artistico di un promettente giovanissimo pittore. Poi, ancora, scrive un aneddoto sulla famosa Eleonora Duse alle prese con un cocomero e un altro sulla indecifrabile scrittura di Robertson, un brillante polemista. L’ultima idea riguarda la creazione di una novella, davvero molto interessante per la presenza di un personaggio originalissimo: un bellissimo Henry Pierre, olandese che viveva a Parigi, ovvero l’uomo oggetto, l’uomo puramente “decorativo”, utile per la sua bellezza, di moda, da far invidia a chi lo “possiede” la cui storia è narrata con la giusta dose di ironia. Tutti i pezzi scritti andranno a formare l’articolo quando il direttore del giornale stanco di aspettare, spianando i fogli arrotolati e buttati nel cestino li radunerà e metterà in ordine.
Un altro scritto, Impegni, di tono e tematica ben diversa sarà pubblicato sul Corriere della Sera, portando all’insperata positiva risoluzione di una lunga battaglia dei veterani di guerra italiani residenti in Francia, per il giusto riconoscimento di una pensione.
C’è anche un pezzo pieno d’ammirazione per il cinema: Il cinematografo , nel quale Annie narra di come si cimenta nella scrittura di un dramma cinematografico, espressamente richiesto da una nota attrice dello schermo americana e definisce il cinema Arte Vera:
Vi è chi dice che l’arte cinematografica somigli molto al plum-pudding, e che perciò non è Arte Vera. Stolto errore! Il fatto che il plum-pudding sia composto di centotrentasette ingredienti e confezionato da molte persone, lo rende forse come dolce meno rispettabile del marron glacé o della caramella di gomma? No.
E come arte, la cinematografia – quando è bella – non può essa forse sostenere il raffronto con l’arte drammatica, poetica, pittorica e musicale, da ognuna delle quali trae tanta parte del suo fascino?
E alla fine scopriamo la sua visione dell’arte e della vita dove non ce la aspetteremmo:
La cinematografia! Il trionfo del moto, della rapidità, dell’impeto, del vertiginoso, dell’inaspettato, del verosimile, del parossismale! La vittoria del movimento sulla immobilità, del fatto sulla frase, dell’azione sulla descrizione.
Ma questa è l’arte vera! Ma è questa la vita vera …!
Lo scritto antifrastico Il segreto della felicità costruisce una pseudo-teoria sulla esistenza e ricerca del marito ideale, sport entusiasmante per chi cerca un quadrifoglio tra i trifogli e passa alla disincantata ironia della individuazione di ben sette tipi di tale marito:
Il marito indulgente
Il marito esigente
Il marito taciturno
Il marito allegro
Il marito brontolone
Il marito artista
Il marito solito
Leggendo, noterete anche sottili e spiazzanti ammiccamenti di sapore femminista. Ad esempio, alla donna che si lamenta del marito esigente che le toglie ogni libertà, sottoponendola a una schiavitù perenne:
Stolta, che non pensa che nella schiavitù è tutta la nostra libertà, nella sottomissione la nostra forza. Chi dice che la donna ha bisogno di libertà? Mostruoso errore!
Oppure, loda la donna che sceglie il marito artista:
Umile e superba ella vivrà nell’ombra creata dalla luce della gloria di lui.
Conclude, quindi, con il capovolgimento di quanto affermato prima e con una spiazzante e divertente verità:
un marito vale l’altro e, leggendo, scoprirete il perché.
Che interlocutrici privilegiate della scrittura della Vivanti siano le donne (sprezzantemente definite dalla Serao le vivantine, donnette che in fatto di letteratura si accontentano di poco), lo conferma la fiaba Le due porte, esplicitamente indirizzata alle donne che hanno intelletto d’amore. Le due porte nascondono un tremendo segreto: una tigre e una signora, leggenda misteriosa, dubbio amletico tra sinistra e destra, con un finale aperto, che rivolge una tragica domanda ad ogni donna sul destino di colui che fino a poco tempo prima è stato il proprio amato e il proprio amante. Armatevi dunque di fiato a sufficienza, perché non riuscirete a fermarvi prima di essere arrivate alla fine, terrete il fiato sospeso e sulle labbra alcuni versi delle Odi barbare di Carducci:
«… Io miro a i venti
Lente ondeggiar le nere chiome; e amore
Sfolgorare ne’ superbi occhi ridenti …».
Carducci, infatti, fu molto amato da Annie fino alla sua morte, anche se il periodo della loro scandalosa relazione (Carducci era sposato e tra lui e Annie c’erano ben trentuno anni di differenza) fu relativamente breve. Lo scritto Giosuè Carducci è proprio un accorato e riconoscente ricordo del vate, con il quale si chiude la raccolta.
Annie dice con grande ammirazione di lui:
Veramente egli camminava “colla testa che batte nelle stelle”.
L’unico suo pensiero, l’unico suo sogno era di spronare all’alto intelletto e il cuore della gioventù italiana, e di mantenerla degna delle sue antiche e gloriose tradizioni
Nello scritto vengono ricordati i momenti più significativi di vari incontri con il poeta, conosciuto quando giovanissima poetessa si vede rifiutare le sue liriche dall’editore Treves – a meno che non ci fosse stata una prefazione di Carducci. Su consiglio di suo fratello, Annie si reca a Bologna dal vate, gli chiede la prefazione e la ottiene. Nell’ultimo incontro si trovano nel paese montano di Madesimo, il poeta accompagna Annie e sua figlia Vivienne che stanno per partire per l’America fino ad un ponte di legno oltre le ultime case del villaggio:
Egli rimase ritto nella chiara luce serale, il capo scoperto, il viso grave e severo, guardandoci allontanare.
Ci voltammo due volte a fargli cenno d’addio, ma egli non si mosse.
Così lo vedo sempre nei miei pensieri, ritto e solo nel tramonto.
E allora, non resta che immergersi con Annie nelle sue affascinanti solitudini.
Il fascino delle solitudini
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