Gli scrittori famosi tolleravano il caldo? Stando a quel che ci riportano libri e raccolte epistolari lo pativano, esattamente quanto noi.
Fotografie d’epoca in bianco e nero ce li mostrano in improbabili - e antiquati - look da spiaggia. Troviamo il celebre scatto che ritrae la coppia Moravia-Morante a Capri nell’estate del 1940 mentre, in costume da bagno, se ne sta abbarbicata su uno scoglio con lo sguardo perso nel vuoto: di certo le loro espressioni non lasciano trasparire spensieratezza né presagire l’entusiasmo che ci si aspetterebbe da due felici turisti in vacanza.
Altre immagini di repertorio ci mostrano Luigi Pirandello in canottiera e pantaloncini di fronte a una lunga fila di ombrelloni o, ancora, il poeta Federico Garcia Lorca mentre prende il sole in espadrillas. È curioso vedere questi grandi letterati nei loro inconsueti look da spiaggia e non ritratti nella classica posa di fronte alla scrivania, con libreria annessa a lato. L’aspetto più bizzarro di tutte queste immagini, per la maggior parte provenienti dal secolo scorso, è il loro comune denominatore: l’espressione del soggetto ritratto sembra invariabilmente provata dal calore intollerabile.
“Che caldo terribile che abbiamo! Ti tiene in un continuo stato di sciatteria”, scriveva Jane Austen dalla “piovosa” Inghilterra; ma non era la sola a lamentarsi, gli autori italiani coltivano da tempo una lunga e accurata tradizione letteraria sul tema.
Negli scritti di Pavese, Ginzburg, Calvino, Tomasi di Lampedusa, Tabucchi, Morante la calura estiva assume diverse sembianze - tutte ugualmente feroci e implacabili - e ciascuno scrittore, attraverso la propria penna, tentò di addomesticarla a modo suo.
In questa estate caldissima scopriamo le migliori citazioni letterarie che ci narrano il rapporto dei grandi autori italiani con il nemico più temibile della stagione rovente.
Gli scrittori e il caldo: da Pavese a Morante
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Sappi anzitutto che l’estate mi ammazza. Io non concludo più nulla. Sono morto, morto. (Cesare Pavese)
Non amava l’estate Cesare Pavese che pure aveva intitolato La bella estate uno dei suoi romanzi più famosi; ma chi l’ha letto sa che è un libro invincibilmente malinconico. Lo scrittore spesso nei suoi testi sottolinea il legame tra estate e noia, la stagione estiva sembrava spalancarsi dinnanzi ai suoi occhi come un enorme tempo vuoto, dalle ore interminabili, in cui a lui sembra costantemente di “toccare il fondo”.
“L’estate mi ammazza” scriveva Pavese in questa lettera all’amico Tullio Pinelli. Parole che, tolte dal loro contesto ironico e semiserio, paiono avverare un triste presagio. Cesare Pavese sarebbe morto d’estate, proprio nel mese di agosto che aveva ritratto con incanto infantile e adulto disincanto in una sua celebre raccolta di racconti Feria d’agosto (1946) in cui venivano ripresi tutti i temi cardine della sua produzione letteraria, dal mito ai paesaggi delle langhe. Lo scrittore si sarebbe tolto la vita il 27 agosto 1950, a Torino, nel cuore feroce di un’invincibile estate.
Vita attraverso le lettere (Einaudi tascabili. Scrittori Vol. 1282)
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Odio l’estate. Odio il mese di agosto sino a Ferragosto. Passato il Ferragosto mi sembra di uscire da un incubo. Mi sembra che lentamente tutto migliori per me. (Natalia Ginzburg)
In un breve saggio intitolato per l’appunto Estate contenuto nella raccolta Vita immaginaria, edita da Einaudi nel 2021, Natalia Ginzburg sembra fare l’eco a Pavese, l’amico da lei ritratto così intimamente in un racconto de Le piccole virtù.
L’autrice di Lessico famigliare non era una grande fan del periodo estivo anche se, come specifica nelle righe successive, non odia l’estate per il caldo, anzi da bambina amava “il caldo e le ciliegie”. Ciò che Ginzburg detesta dell’estate, proprio come Pavese è la noia: le giornate d’agosto nella città vuota, accecata dal sole, le appaiono tristi e interminabili, pure i cinematografi - osserva a malincuore - sono vuoti. Poi arriva la domanda più temibile, osserva in conclusione: tutti partono e ti chiedono se anche tu partirai. L’autrice conclude malinconica con una chiusa che ricorda La casa dei doganieri di Montale, dicendo di non aver voglia di partire né di restare.
Vita immaginaria. Nuova ediz.
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Questo clima che ci infligge sei mesi di febbre a quaranta gradi. Li conti, Chevalley, li conti: Maggio, Giugno, Luglio, Agosto, Settembre, Ottobre; sei volte trenta giorni di sole a strapiombo sulle teste; questa nostra estate lunga e tetra quanto l’inverno russo e contro la quale si lotta con minor successo; Lei non lo sa ancora, ma da noi si può dire che nevica fuoco, come sulle città maledette della Bibbia; in ognuno di quei mesi se un Siciliano lavorasse sul serio spenderebbe l’energia che dovrebbe essere sufficiente per tre. (Giuseppe Tomasi di Lampedusa)
Il sole regna sovrano in Sicilia e nessuno è riuscito a descrivere la mostruosa arsura che invade l’isola meglio di Giuseppe Tomasi di Lampedusa tra le pagine de Il Gattopardo. Il caldo narrato da Tomasi di Lampedusa è ubriacante, feroce, senza posa. Con un efficace ossimoro l’autore ci parla di “un’estate tetra come l’inverno russo”, tanto è lunga e interminabile l’estate siciliana. Il dialogo tra il cavaliere Aimone Chevalley di Monterzuolo e il Principe Salina ci offre uno dei ritratti più completi della sicilianità su cui incombe un sole implacabile, infuocato che ricorda la pioggia di fuoco delle piaghe d’Egitto e conduce gli abitanti a limitarsi in attività e movimenti e prediligere l’ozio e la contemplazione. Il regno di Sicilia pare essere governato da un sole crudele, oltre che da secoli di dominio straniero.
Il Gattopardo
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Qui il caldo è insopportabile. Io vado quasi ogni giorno in piscina o sul Po. (Italo Calvino)
Le notizie meteorologiche e gli aggiornamenti meteo sono una costante nelle Lettere di Italo Calvino che era solito chiudere spesso le sue missive con un aggiornamento sulle condizioni climatiche.
In una lettera indirizzata al padre, Mario Calvino, datata il 13 luglio 1947, lo scrittore si lagnava del “caldo insopportabile ” e, trovandosi invischiato nell’afa torinese, auspicava di poter trovare refrigerio in piscina o in riva al Po. Nella stessa missiva lo scrittore si augurava di poter tornare presto a Sanremo, sul mar Ligure, dove si trovava la casa di famiglia.
Tre giorni dopo però, il 16 luglio, lo scrittore si trovava a Roma per alcuni impegni editoriali e di nuovo scriveva al padre lagnandosi: “Roma è un inferno di calore”. Poche righe sotto comunica di aver organizzato una gita al mare con i Moravia (Alberto e, deduciamo, anche Elsa) e infine conclude ripromettendosi di tornare nella mite e marina Sanremo per starci “per una quindicina di giorni di ferie”.
Ah, agognate ferie d’agosto, anche Calvino le bramava!
Lettere 1940-1985
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Faceva un caldo enorme, il piccolo ventilatore che mi ero portato non dava nessun refrigerio, la città sembrava morta. (Antonio Tabucchi)
In un racconto, dal titolo Voci, contenuto nella raccolta Il gioco del rovescio, Antonio Tabucchi ci offre un ritratto spietato - e veritiero - del caldo e della pena che esso porta con sé. La storia è ambientata in un 15 agosto vissuto in centro città: tutti sono partiti e “la città sembrava morta, tutti via, in vacanza”. La nostra narratrice lavora come centralino ed è quindi abituata a ricevere chiamate - da qui l’enigmatico titolo Voci, che fa riferimento a presenze reali, ma forse anche fantasmatiche. Cullata dalla calura estiva la protagonista legge svogliatamente un libro di Sagan, e ogni volta rischia di addormentarsi tenendo il libro sul petto cullata dal caldo. Tutto sembra fermo, immobile, nel clima arido e statico del Ferragosto. La donna a un certo punto riceve la chiamata di un uomo, Fernando, che minaccia di suicidarsi perché la moglie l’ha abbandonato. A partire dalla ragazza della prima chiamata, che ostinatamente ripete “Non ce la faccio più”, tutto sembra essere un sinistro presagio. L’estate narrata da Tabucchi è fatta di ferocia e abbandono.
Il gioco del rovescio e altri racconti
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Se, almeno, fosse durato sempre il presente inverno, malaticcio e smorto, sull’isola! Ma no, anche l’estate, invece, sarebbe tornata immancabilmente, uguale al solito. Non la si può uccidere, essa è un drago invulnerabile che sempre rinasce, con la sua fanciullezza meravigliosa. Ed era un’orrida gelosia che mi amareggiava, questa: di pensare all’isola di nuovo infuocata dall’estate, senza di me! La rena sarà di nuovo calda, i colori si riaccenderanno nelle grotte, i migratori, di ritorno dall’Africa, ripasseranno il cielo… E in simile festa adorata, nessuno: neppure un qualsiasi passero, o una minima formica, o un infimo pesciolino del mare, si lagnerà di questa ingiustizia: che l’estate sia tornata sull’isola, senza Arturo! (Elsa Morante)
Per concludere riprendiamo la protagonista della nostra immagine di copertina. Nel suo romanzo estivo per eccellenza, L’isola di Arturo, Elsa Morante ritrae l’isola di Procida in cui vive il suo protagonista, il fanciullo che porta il nome di una stella, Arturo Gerace.
Meravigliosa e invincibile l’estate descritta da Elsa Morante che assume le sembianze metaforiche di un “drago invulnerabile” che rinasce vigoroso con la forza di una fanciullezza ineffabile. Quando Arturo si allontana dall’isola comprende, con amarezza, che la stagione spensierata della sua vita ormai è conclusa e gli appare inconcepibile che l’estate possa ritornare splendente a brillare su Procida senza di lui. L’estate infuocata assume quindi le sembianze di una festa eterna; ma il protagonista se ne discosta, sentendosene escluso.
Il ritorno sempre uguale della stagione estiva è promessa e nostalgia. Nell’amarezza di Arturo possiamo ritrovare lo sguardo malinconico di Elsa Morante che, su quella spiaggia di Capri, sembrava contemplare un altrove visibile solamente a lei. Era l’estate che l’assaliva, simile a un drago.
L'isola di Arturo
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Gli scrittori e il caldo: le frasi di Pavese, Ginzburg, Morante e altri
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