Don Abbondio incontra i bravi nel disegno di Francesco Gonin (1808-1889) - edizione del 1840 dei Promessi Sposi
In quell’incredibile e magnifica rassegna di umanità che è I Promessi Sposi, Don Abbondio si evidenzia come uno dei personaggi più incisivi e meglio definiti tra tutti quelli scaturiti dall’immaginazione e dalla penna di Alessandro Manzoni.
In un certo senso possiamo affermare che l’autore si sia davvero divertito a caratterizzare il vile curato del piccolo borgo in cui vivono Renzo e Lucia, liberando tutta la sua inesauribile vena umoristica per idearlo, oltre alle ben note capacità introspettive e psicoanalitiche che contribuiscono a renderlo il più grande scrittore italiano moderno.
Grazie all’infinita viltà che dimostra in ogni frangente e alla totale assenza di aspirazioni se non quella di poter vivere tranquillo, a Don Abbondio spetta di diritto il titolo di pusillanime per antonomasia della nostra letteratura.
Eppure, nonostante appaia più macchietta che persona, Don Abbondio è al tempo stesso profondamente umano e vivacissimo dal punto di vista espressivo: ecco la sua storia, dall’incontro con i bravi di Don Rodrigo alla sofferta celebrazione del matrimonio di Renzo e Lucia.
Chi è Don Abbondio? Storia, caratteristiche ed episodi salienti nei Promessi Sposi
Don Abbondio è il primo personaggio importante de I Promessi Sposi con cui il lettore fa la conoscenza.
Curato del piccolo paese vicino Lecco in cui è ambientata la storia, il suo tratto caratteristico, la pusillanimità, si mostra in tutta evidenza già in occasione del fatidico incontro con i bravi (Cap.I).
Nella magistrale descrizione della quotidiana passeggiata del religioso, nulla è lasciato al caso e ogni particolare ne rivela la natura egoistica e patologicamente pavida, come l’abitudine di scansare i ciottoli che gli intralciano il cammino, chiara metafora dell’inclinazione ad evitare ogni sorta di guaio o pericolo nella vita.
La scena è tragicomica: quando Don Abbondio scorge gli sgherri di Don Rodrigo, inizialmente non sa come comportarsi, dopodiché, siccome "darla a gambe, era lo stesso che dire, inseguitemi, o peggio" decide di affrettare il passo per raggiungerli prima e far sì che la paura che prova duri il meno possibile.
Alla fine, come è inevitabile per uno come lui, accetta l’ingiusta imposizione di non celebrare le nozze dei due giovani compaesani, rispondendo balbettando "disposto... disposto sempre all’ubbidienza", che in pratica è il leitmotiv della sua esistenza.
Per fortuna, come sempre, può sfogarsi con la fedele Perpetua, ma l’incontro/scontro con i bravi, ad ogni modo, rischia di compromettere seriamente il sistema di vita fin troppo prudente che si è fino a quel momento assicurato con tanta fatica ed impegno:
"Lo spavento di que’ visacci e di quelle parolacce, la minaccia d’un signore noto per non minacciare invano, un
sistema di quieto vivere, ch’era costato tant’anni di studio e di pazienza,
sconcertato in un punto, e un passo dal quale non si poteva veder come uscirne:
tutti questi pensieri ronzavano tumultuariamente nel capo basso di don Abbondio."
La notte che segue l’inaspettato e sgradevole colloquio con gli scagnozzi del capriccioso signorotto, è terribile per il povero Don Abbondio, che a causa della paura è sempre incerto, mancandogli completamente la capacità di saper prendere decisioni mature e consapevoli.
E così, quando si trova al cospetto di Renzo, gioca la carta della menzogna e del temporeggiamento, usando comicamente il latino con l’intenzione di ingannare il ragazzo, che è un campagnolo analfabeta sì, ma intelligente, e alla fine riesce a fargli pronunciare il nome tanto temuto, "Don Rodrigo!", in una delle scene più divertenti dell’intero romanzo.
Don Abbondio svolge un ruolo essenziale nell’intreccio de I Promessi Sposi dall’inizio alla fine, come strumento delle voglie malsane di Don Rodrigo e come involontario antagonista nel racconto.
Per questo lo ritroviamo in numerosi passi, tutti volti a metterne in risalto la proverbiale codardia in una serie di episodi talmente esilaranti da essere divenuti iconici.
Come non ridere di fronte all’espressione che il prete assume quando il Cardinal Federigo gli dice di recarsi al castello dell’Innominato per incontrarvi Lucia e lui risponde a monosillabi "con il viso tra l’attonito e il disgustato?"
Mai, in nessun momento, situazione o lampo, Don Abbondio viene meno alla sua natura di piccolo uomo meschino e insignificante.
Non sortisce alcun effetto neppure il severo rimprovero che Borromeo gli rivolge intorno alla metà della storia (Cap.XXV), quando cerca di ricondurlo ai suoi doveri di prete:
"Che sarebbe la Chiesa, se codesto vostro linguaggio fosse quello di tutti i vostri confratelli? Dove sarebbe, se fosse comparsa nel mondo con codeste dottrine?".
Il timore di tutto e tutti, nonché lo spasmodico desiderio di mantenersi a debita distanza dalle sciagure, in Don Abbondio sono più forti di qualsiasi eventuale sussulto di dignità e di orgoglio, tanto da decidersi finalmente ad officiare il sospirato matrimonio fra Renzo e Lucia soltanto dopo aver avuto la certezza della morte di Don Rodrigo.
A tal proposito, le parole che pronuncia in riferimento alla dipartita di quest’ultimo, inusuali per qualunque religioso degno di questo nome, gli calzano a pennello e ne dimostrano una volta di più la personalità decisamente bislacca e fuori dal comune:
"Ah! è morto dunque! è proprio andato! Vedete, figliuoli, se la Provvidenza arriva alla fine certa gente. Sapete che l’è una gran cosa! un gran respiro per questo povero paese! che non ci si poteva vivere con colui. È stata un gran flagello questa peste; ma è anche stata una scopa; ha spazzato via certi soggetti, che, figliuoli miei, non ce ne liberavamo più: verdi, freschi, prosperosi: bisognava dire che chi era destinato a far loro l’esequie, era ancora in seminario, a fare i latinucci. E in un batter d’occhio, sono spariti, a cento per volta. Non lo vedremo più andare in giro con quegli sgherri dietro, con quell’albagìa, con quell’aria, con quel palo in corpo, con quel guardar la gente, che pareva che si stesse tutti al mondo per sua degnazione. Intanto, lui non c’è più, e noi ci siamo. Non manderà più di quell’imbasciate ai galantuomini. Ci ha dato un gran fastidio a tutti, vedete: ché adesso lo possiamo dire."
Il carattere di Don Abbondio: il simbolo della mediocrità
Lo ribadiamo: Don Abbondio è il mediocre perfetto, un ometto meschino senza dignità e un briciolo di amor proprio, che non ha altra ambizione nella vita se non quella di restarsene tranquillo nel proprio esclusivo mondo di piccinerie, il più possibile lontano da qualsivoglia genere di seccatura.
Un ritratto tutt’altro che edificante, che ci obbliga ad annoverarlo tra i protagonisti negativi del romanzo, sebbene non del tutto.
Questo insignificante prete di campagna, infatti, che accetta senza batter ciglio l’odiosa imposizione del prepotente di turno dando inizio alle traversie degli incolpevoli Renzo e Lucia, non ha un animo malvagio e di sua iniziativa non farebbe male a una mosca, solo che il temperamento pauroso e la smania di proteggere se stesso lo inducono a lasciarsi sopraffare da chiunque percepisca come possibile causa di rogne e a non disdegnare le azioni più infime se necessarie a sfuggire da eventuali pericoli.
Dunque, almeno, Don Abbondio non è cattivo, sebbene sia difficile esserlo, va precisato, quando si è completamente privi di intraprendenza e coraggio.
Manzoni svela fin da subito la natura di questo antieroe bonario e a tratti persino simpatico, raccontandoci che è diventato prete non per vocazione sincera ma per evitare le violenze private che sui deboli, nell’Italia del ’600, anche per via di leggi inadeguate, erano all’ordine del giorno.
Dato che "non era nato con un cuor di leone" ci dice lo scrittore, Don Abbondio, "non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno", si sente "come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro. Aveva quindi assai di buon grado ubbidito ai parenti che lo vollero prete".
Il ruolo di curato infatti, più che perseguire i nobili fini della chiesa, permette a Don Abbondio di raggiungere la quiete tanto ambita, quanto meno fino allo sciagurato incontro con i bravi.
Un altro attributo che pure concorre a rendere Don Abbondio un religioso sui generis, è l’eccessivo attaccamento al denaro.
Esso risulta evidente, in particolare, quando, anche se contrariato dal dover abbandonare per un attimo le sue letture, ordina a Perpetua di far entrare Toniovenuto a restituirgli dei soldi perché "Se non lo piglio ora, chi sa quando lo potrò pigliare!" (Cap.VIII) e nel momento in cui, dopo le scorrerie dei Lanzichenecchi, si accorge con orrore della sparizione dei suoi averi e dà la colpa alla serva accusandola di non averli nascosti come avrebbe dovuto (Cap.XXX).
A completare questo ritratto non certo esemplare, infine, si aggiunge la scarsa cultura, decisamente rara in un parroco dell’epoca.
In proposito, citiamo lo spassoso episodio nel quale, immerso nella lettura di un panegirico di San Carlo, si chiede "Carneade! chi era costui?", dimostrando di non conoscere affatto il filosofo greco (Cap.VIII).
L’indulgenza di Manzoni per "il nostro Don Abbondio", personaggio negativo sì, ma anche (fin troppo) umano
Le eccellenti qualità ritrattistiche di Manzoni si esprimono al massimo nella figura di Don Abbondio.
Chiunque conosca I Promessi Sposi, non può non convenire sul fatto che esso sia uno dei personaggi che restano maggiormente impressi nella mente, vuoi per il rilievo che assume nella trama, vuoi, forse soprattutto, per l’effetto ambivalente che suscita nel lettore.
Oggettivamente è difficile, se non impossibile, restare neutrali di fronte ai suoi atteggiamenti perennemente governati dalla paura, ma se è vero che spesso ci procura un senso di rabbia, a volte, dobbiamo ammetterlo, riesce anche a farci tenerezza, nonché a strapparci qualche risata.
Del resto "il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare" e se il contesto non aiuta, ecco che un briciolo di comprensione diventa d’obbligo.
Don Abbondio è una persona comune, che non ha avuto in dono dal destino grandi doti e, come se non bastasse, l’Italia del XVII secolo non è un bel posto per quelli come lui: cos’altro può fare per sopravvivere in una società che non lo tutela abbastanza?
Né nobile né ricco, forte e ardito ancor meno, tutto sommato non ha alcuna propensione al male e tutto ciò che vuole è che non ne facciano a lui.
Attraverso un’analisi psicologica accurata che si esprime specialmente nei tormentati monologhi interiori che lo riguardano, Manzoni rappresenta nella buffa figura di colui che bonariamente definisce "il nostro Don Abbondio", i difetti tipici della maggior parte degli uomini, ma senza mai abbandonarsi ad una condotta inquisitoria e moralistica.
Intendiamoci, lo scrittore milanese non ha la mano leggera con Don Abbondio, del quale si diverte ad evidenziare, con fare canzonatorio, qualunque minima debolezza, ma al tempo stesso si mostra indulgente e comprensivo nei suoi riguardi.
Non solo e non tanto per l’attenuante, pure obiettiva, del contesto storico complicato, quanto piuttosto per la sua estrema umanità e perché, anche se spiace ammetterlo, un pizzico di Don Abbondio si trova in ciascuno di noi.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Don Abbondio: storia e analisi del personaggio dei Promessi Sposi di Manzoni
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