Come le mosche d’autunno
- Autore: Irene Némirovsky
La lettura di questo breve ma intenso racconto, neppure 100 pagine suddivise in nove corti capitoli, ha richiamato alla mia memoria il titolo di un vecchio romanzo di Liala del quale ricordo solamente la copertina (non avendolo probabilmente neppure letto): “Di ricordi si muore”. E’ chiaro che le affinità fra una scrittrice dichiaratamente “rosa” come Liala e un’altra dallo stile completamente differente come la Némirovsky si fermano al titolo; mi è sembrato però che questa frase potesse definire perfettamente il senso di questo libro. Essere sradicati dalla propria casa, dalla propria gente, dalla propria vita, è un’esperienza che può distruggere un individuo in un attimo, e Irène Némirovsky sapeva bene di cosa stava scrivendo; ma solo chi riesce a distaccarsi anche mentalmente può sopravvivere, e solitamente sono i giovani che, avendo alle spalle una parte limitata della propria esistenza, possono farcela a ricominciare. Per un anziano, al contrario, un taglio netto può essere la morte dell’anima, e, conseguentemente, perfino quella corporale.
Tat’jana Ivanovna, la vecchia “njanja”, la governante di casa Karin, è la figura centrale del racconto, una classica figura di “njanja” russa, seria, pratica, tenace, devota ai padroni che considera ormai la propria famiglia, tanto da essersi forzata ad andare contro le proprie convinzioni morali accettando l’unione del padrone con la bella vedova che, vivo il marito, era stata la sua amante. In seguito, però, la nascita di quattro bei figli ha creato una famiglia felice. Ma siamo nel 1916, la guerra incombe, e Tat’jana, con profonda inquietudine, deve salutare i giovani Jurij e Kirill che partono per il fronte. Dopo non più di due anni, la “njanja” è rimasta sola nella grande casa semivuota, mentre i padroni hanno cercato rifugio a Odessa. A Tat’jana, persa nella grande casa che custodisce per loro, tocca assistere alla barbara morte di Jurij, fuggito dal fronte. E’ allora che decidere di raggiungere i padroni, dapprima a Odessa, poi accompagnandoli nel loro lungo viaggio fino a Parigi, per cercare una vita nuova. Ma quando la propria vita si è svolta quasi del tutto nello stesso luogo, con le stesse persone e le stesse abitudini, cercarne una diversa può rivelarsi un’impresa impossibile. I giovani Kirill e Loulou hanno radici sottili, e non è difficile per loro farne crescere di nuove, una volta strappate; hanno visto la guerra e la morte e hanno reagito con cinismo e spregiudicatezza, abbracciando i nuovi costumi e percependo la vita come un qualcosa di esile e passeggero. I loro genitori inizialmente si trovano spaesati e si disperano, passando le giornate a camminare da una parete all’altra del loro appartamento, “come le mosche d’autunno”. Ma anche in loro infine la vita ha il sopravvento, si rassegnano ai nuovi costumi e alla nuova situazione e passano oltre. Solo Tat’jana non riesce a trovarsi nella nuova vita, tenendosi stretta ai propri ricordi e rimpiangendo finanche la neve che avvolgeva gli inverni russi, e che a Parigi non appare mai. Così può accadere di scivolare in uno stato di follia, sebbene temporaneo, e la densa nebbia di una mattinata parigina può sembrare l’inizio di una nevicata e confondere del tutto la mente provata dal rimpianto...
Intenso e drammatico, un racconto che, proponendo una situazione tipica e comune, tiene avvinghiati i lettori dalla prima all’ultima pagina, con personaggi vivi che si fanno ricordare.
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