I bambini del mercato
- Autore: Edgar Lee Masters
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Elliot
- Anno di pubblicazione: 2021
La casa editrice Elliot nella sua collana “Raggi” pubblica il romanzo finora inedito I bambini del mercato (2021, titolo originale Children of the Market Place, traduzione e cura di Massimo Ferraris) edito per la prima volta nel 1922 e opera del poeta, scrittore e avvocato statunitense Edgar Lee Masters (Garnett, 23 agosto 1868 – Melrose Park, 5 marzo 1950), noto soprattutto come autore dell’Antologia di Spoon River.
“Sono nato a Londra il 18 giugno 1815: mentre facevo il mio ingresso in questo mondo, si stava combattendo la battaglia di Waterloo. A migliaia stavano dando la vita nel momento in cui a me veniva donata. Mio padre prendeva parte a quella grande battaglia”.
Se la madre del protagonista dell’io narrante del presente testo era morta nel dare alla luce suo figlio, il padre invece era tornato dalla guerra sei mesi dopo, debole e malato, ferito nella battaglia di Waterloo. Quando il bambino aveva quattro anni, allevato dalla famiglia della madre defunta, il padre era emigrato in America. Il bambino quindi conservava vaghi ricordi del genitore, non aveva memoria del suo volto, non c’era un suo ritratto. Qualcuno aveva detto al bambino che suo padre era alto e forte, e che aveva preso da lui il naso aquilino, la fronte squadrata, il mento fermo. Il padre del bambino aveva scritto a suo figlio appena arrivato in America. Lettere conservate con cura, scritte con l’ampia grafia tipica di una natura avventurosa.
Gli anni erano volati, il ragazzino era stato cresciuto nella chiesa anglicana e gli era stato insegnato a venerare Wellington e a odiare Napoleone quale nemico della libertà, usurpatore, falso imperatore, mostro e assassino. Aveva seguito i suo studi a Eton e a Oxford, “indottrinato con l’idea che esista un ordine morale nel mondo e che Dio regni sulle vicende umane”. A Oxford il giovane aveva molti amici e conduceva una lieta vita di studio fino a quando erano arrivate cattive notizie: il padre era morto lasciandogli una grande tenuta in Illinois. Il ragazzo, appena diciottenne, doveva abbandonare gli studi per andare in America. Era il 1833, il Vecchio Continente era in pieno fermento perché i principi della Rivoluzione francese avevano attecchito.
“Era l’alba di un grande giorno per il mondo. E io andavo in America!”
Il Grande Paese fotografato nel 1833, poco meno di trent’anni prima dello scoppio della guerra di Secessione Americana (1861–1865). Un Paese libero, senza alcun re, dove il popolo era sovrano. Ma il Paese delle grandi opportunità e dei vasti orizzonti possedeva in sé una grande anomalia: essere una Repubblica che manteneva l’istituto della schiavitù. La maggior parte degli americani riteneva che gli Stati Uniti fossero stati fondati da uomini bianchi per uomini bianchi e che i neri fossero esseri di ordine inferiore, la cui schiavitù era giustificata anche dalla Bibbia. La maggioranza del clero e delle chiese del Paese approvavano tale istituto, gli schiavi peraltro erano trattati bene, alloggiati e nutriti molto meglio degli operai in Europa, e meglio di molti manovali anche in America. Del resto negli Stati del Sud la schiavitù era necessaria al clima e all’industria del cotone. Ma c’era qualche voce fuori dal coro. William Lloyd Garrison aveva iniziato a pubblicare un giornale chiamato “The Liberator”, nel quale propugnava la necessità di insorgere contro la schiavitù e di abolire le leggi che la sostenevano e nel New England era attivo un movimento teso a fondare la Società Americana contro la Schiavitù. Sicuramente l’America era dilaniata da molti contrasti, che un osservatore arrivato da oltre l’Oceano Atlantico, registrava con meticolosa puntualità.
Appare straordinario come un romanzo pubblicato quasi cento anni fa sia ancora attuale, perché denuncia ed evidenzia contraddizioni tuttora irrisolte di una società segnata, al di là dell’apparente costante progresso materiale, da profonde tensioni e insicurezze.
“Oggi la minaccia più letale per il paese è il suprematismo bianco”, ha detto il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden lo scorso 1° giugno, commemorando a Tulsa i 100 anni del massacro di circa 300 cittadini afroamericani e la distruzione del loro fiorente quartiere nero di Greenwood a Tulsa, in Oklahoma, uno dei momenti più bui della storia statunitense.
“L’odio non è mai sconfitto, si nasconde soltanto”.
Ha aggiunto Biden, che ha promesso di non dimenticare, volendo indire un “Giorno della memoria” per i 100 anni dal massacro di Tulsa e annunciando sette misure per ridurre il gap economico razziale negli Stati Uniti: da investimenti nell’edilizia nei quartieri più poveri al sostegno finanziario per scuole e piccole attività guidate da minoranze.
I bambini del mercato
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