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Recensioni di libri

Andare in Cina a piedi di Giovanni Giudici

Ledizioni, 2017 - Una raccolta di saggi di Giovanni Giudici che si inoltra nell’officina della scrittura, indagandone gli strumenti, nel tentativo di rivendicare il ruolo della poesia, di cui la società contemporanea sembra avere decretato l’inutilità.

Alida Airaghi
Alida Airaghi Pubblicato il 07-03-2017

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Andare in Cina a piedi

Andare in Cina a piedi

  • Autore: Giovanni Giudici
  • Categoria: Saggistica
  • Anno di pubblicazione: 2017

Nel 1992 Giovanni Giudici (1924-2011), già allora poeta molto noto e pluripremiato, pubblicava presso le Edizioni e/o un volumetto di interventi – brevi saggi, articoli di giornale, appunti, riflessioni – dedicati alla musa da lui più frequentata. “Racconto sulla poesia” è infatti il sottotitolo del libro da poco ripropostoci dalla casa editrice milanese Ledizioni: “Andare in Cina a piedi”.

In queste pagine Giovanni Giudici raccontava, con la consueta (sapida e insieme bonaria) ironia, di cui sapeva fare magistralmente uso anche nei versi, le disavventure esistenziali di chi avesse deciso di dedicare la sua vita alla scrittura poetica: la più misconosciuta, marginale, gratuita e povera tra le attività letterarie. Si rivolgeva qui a se stesso, in una autobiografia reinventata ad uso di vicini e lontani, contemporanei e posteri, con una sorta di rievocazione diaristica dei suoi esordi, degli incontri con importanti personalità della cultura, delle difficoltà professionali e familiari in cui si dibatteva nell’esistenza quotidiana. Si rivolgeva anche agli apprendisti poeti, illustrando il labor limae necessario e imprescindibile per chi voglia scrivere: la scintilla inventiva da cui prende avvio una composizione, la strutturazione stilistica, l’uso della rima e del ritmo, il valore della traduzione. Dava indicazioni su come avvicinarsi a un testo poetico, con quali accorgimenti leggerlo, in che modo ampliarne il senso, dove recuperarne gli echi.

“Ogni poesia è generalmente offerta al Lettore che è libero di farne ciò che vuole, di usarla e ri-usarla come gli conviene, essendo la lettura di essa un fatto altrettanto privato che la sua scrittura”.

Il confronto assiduo, arrovellante, tormentoso con la lingua (“miniera dell’esprimibile”) e in particolare con la lingua poetica (“non è soltanto ciò che significa, ma significa ciò che è”), il fastidio per le approssimazioni e le disinvolture di troppi mestieranti, per gli atteggiamenti istrionici o ieratici di molti sedicenti artisti, venivano sottolineati con un forte richiamo etico al rispetto della parola. Un rispetto che si traduceva quasi in reverenza, al punto da spingersi a sconsigliare formule abusate, ridondanti, eccessive o semplicemente stonate (no ai termini ad effetto, ai sentimenti gridati, alle specificazioni dettagliate, ai troppi avversativi o disgiuntivi; sì all’uso intelligente di litoti, chiasmi, allitterazioni, anastrofi e rime, che esprimono una cura attenta del suono).
Con l’umile consapevolezza, però, che nella poesia gli autori sono sempre due: il poeta e la poesia stessa

“che probabilmente pre-esiste, nel magmatico profondo della lingua, alla nostra stessa occasione/intenzione di scrittura”.

Nei versi nati da un’attesa durata magari anni o decenni possono confluire dati remoti e trascurabili, letture e incontri sepolti nella memoria, che improvvisamente si impongono da soli sulla pagina, dopo un viaggio lunghissimo, a volte faticoso, arricchente. Come “andare in Cina a piedi”.

Se per Giovanni Giudici il rapporto culturale e affettivo con altri poeti (gli amati Saba e Noventa, soprattutto) sono stati fondamentali, vorrei accennare brevemente ai quattro incontri che ho avuto con lui, nei miei lontani anni universitari a Milano. Tre all’Olivetti dove dirigeva il settore pubblicitario: tremante gli avevo sottoposto sia un mio saggio sulle figure femminili nella sua poesia, sia alcune mie composizioni, che lui aveva gentilmente letto e paternamente corretto, accompagnandomi in seguito in una libreria per farmi dono di un volume su Parmenide. Una volta mi aveva invece invitato a casa sua, presentandomi la moglie e i due figli, in occasione di un’intervista per il Quotidiano dei Lavoratori, il cui direttore aveva poi preteso che convertissi il mio riguardoso “lei” nel “tu” che si deve dare a un “compagno”.
Negli anni successivi mi fece arrivare tutti i suoi libri, con dedica, addirittura a Zurigo dove mi ero trasferita: a testimonianza di quanto per lui contasse la poesia non solo intellettualmente, ma anche come tramite di conoscenza con la realtà circostante e col prossimo. Cosa che chiunque voglia leggere il volume qui recensito avrà modo di verificare, traendone insegnamenti vitali, privi di qualsiasi supponenza o pedanteria.

Andare in Cina a piedi. Racconto sulla poesia

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© Riproduzione riservata SoloLibri.net

Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Andare in Cina a piedi

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