

Una lunga penna nera. Gli Alpini: storia di eroismo e fratellanza
- Autore: Alfio Caruso
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2024
Dal 1988, il motto è “Di qui non si passa”. Una penna di corvo svetta da una nappina colorata sull’inconfondibile cappello di feltro. I passi di marcia, lenta, sono 33 al minuto. È la fanteria scelta di montagna più ammirata al mondo e se la data di creazione del Corpo è certa, 1872, non altrettanto il fondatore: in tre a contendersi l’orgoglio, il capitano Perrucchetti, il tenente generale Ricotti Magnani e il tenente colonnello Ricci. Alfio Caruso, giornalista e saggista catanese, ha dedicato a veci e bocia la ricostruzione puntuale e sentimentale del loro secolo e mezzo di onore militare, un testo che Diarkos Editore di Sant’Arcangelo di Romagna ha riproposto in primavera, nel volume Una lunga penna nera. Gli Alpini: storia di eroismo e fratellanza (maggio 2024, collana Storie, 286 pagine).
Almeno un migliaio di libri parla di loro e ognuno di questi è parte del grande racconto di un patrimonio “profondo e irripetibile della realtà italiana”, di cui tutti possono essere orgogliosi. Il suo lavoro è quindi l’ennesimo passaggio di testimone in una staffetta infinita tra un congedato e la recluta che gli subentra (né l’uno né l’altro smetterà mai d’essere alpino). È dedicato dall’autore alla memoria di Cesare Lavizzari (“andato avanti, lasciandoci più soli”), straordinario esemplare “di italiano perbene” e preziosa fonte di suggerimenti e informazioni, nipote di Fausto, il comandante del leggendario 9° della Julia in Russia.
Come ogni vicenda, la storia degli Alpini ha un inizio e una fine. L’alfa resta il 1872, l’omega cambia man mano che gli anni passano. In questa edizione è l’operato dell’ANA, l’Associazione Nazionale fondata nel 1919 a Milano. Due anni fa contava oltre 320 mila soci, 80 mila dei quali aggregati, con 80 sezioni in Italia (articolate in circa 4.250 gruppi), 30 nel mondo più 5 gruppi autonomi in Canada. Incessanti gli interventi di soccorso e pubblica utilità nelle emergenze nazionali, dettati purtroppo dalle sciagure. Ultimi i grandi terremoti nella penisola, alluvioni ed esondazioni di fiumi in Toscana, Veneto e Romagna.
Il Corpo è nato col Regio Decreto n. 1056 del 15 ottobre 1872. Il merito lo contendono in tre. Giuseppe Domenico Perrucchetti, trentaduenne capitano brianzolo e architetto mancato, sosteneva la necessità di schierare al confine alpino soldati nati in montagna: ogni vallata va difesa dai suoi abitanti, che la conoscono, vi sono cresciuti e hanno la forte motivazione ulteriore di proteggere la casa. Convinto da questi argomenti, il ministro della guerra, il generale Cesare Francesco Ricotti Magnani, gli consentì di sviluppare il progetto, ma di fatto lo fece proprio, presentando nel gennaio 1872 tre iniziative di legge, una delle quali prevedeva la formazione di nuovi Distretti militari alla frontiera alpina, con la nascita di compagnie distrettuali di corpi speciali di tiratori, a reclutamento locale. Un terzo co-fondatore, pur non accampando pretese, è il colonnello Agostino Ricci, della scuola di guerra (di cui sarà comandante), che già dal 1868 proponeva unità speciali su Alpi e Dolomiti, arruolando battaglioni di bersaglieri formati da congedati delle stesse zone montane nelle quali avrebbero operato.
La prima classe chiamata alla naja alpina è stata il 1852. Le città: Torino, Cuneo, Como, Novara, Brescia, Treviso, Udine. Quindici le compagnie, intitolate ai luoghi nativi, come si ripeterà spesso per i battaglioni futuri.
Dopo le pagine dedicate alle origini del Corpo delle penne nere, la storia di
coraggio, sacrificio, dedizione sempre a difesa del popolo italiano
prosegue con i protagonisti, i campioni, le facce toste, gli eroi, a partire dalla prima medaglia d’oro, il capitano dalla gavetta Pietro Cella, emiliano, ad Adua.
C’è Jacopo Cornaro, giovane tenente nei primi del ’900. In una esercitazione al confine occidentale, alcuni ufficiali francesi lo invitano a raggiungerli per un brindisi; si tratta di finta cortesia, sono convinti che l’italiano declinerà, spaventato dal crepaccio largo cinque metri che li separa. Non hanno fatto i conti con quell’alpino. In tenuta di marcia e affardellato, prende la rincorsa, supera, si presenta, vuota il calice, sbatte i tacchi, saluta militarmente, riprende la rincorsa e salta in Italia.
Michele Venier, tenente del V Raggruppamento nella Grande Guerra, vive per mesi appollaiato sulle Tofane, mentre il comandante se ne sta a Vervei. Nella tarda estate del ’16, in una bufera di neve, Venier passa con la mantellina sulla testa davanti al Comando e il colonnello, che gigioneggia al caldo, lo “arronza” per non aver salutato il superiore. Venier risponde che lassù dove si patisce non ha mai avuto l’onore d’incontrarlo. Si volta e prosegue sotto la neve.
Augusto Noacco, sergente del Battaglione Cividale sul fronte greco-albanese approfitta delle pause dei combattimenti per recuperare i cadaveri dei commilitoni: li fa scivolare a valle lungo il canalone gelato, come faceva da boscaiolo con i tronchi degli alberi.
Giovanni Don, bocia del Cividale, ferito e prigioniero in Grecia, al rientro viene declassato alla contraerea a Tarvisio. Quando la Julia parte per la Russia, sale sulla tradotta, “sono tornato a casa” e i commilitoni lo nascondono fino all’arrivo. Il comandante si deve sbattere per far cadere l’accusa di diserzione. Giovanni è tra i 104 mila rimasti sulla steppa ghiacciata.
Dopo i tanti, tantissimi della tragica ritirata dalle pianure russo-ucraine, l’ultimo decorato è il catanese Andrea Adorno, alpino paracadutista del Monte Cervino, caporalmaggiore scelto. Nel luglio 2010, nella valle afgana del Murghab, non smette di coprire i commilitoni con la sua mitragliatrice, pur tempestato dai talebani. Continua a farlo anche dopo una grave ferita a una gamba. Da allora, ha sempre risposto con modestia alpina:
Ho fatto solo il mio dovere.

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