

Tomahawk. Trent’anni di guerre nelle pianure
- Autore: Paul Wellman
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2020
Pacta sunt servanda, gli accordi vanno rispettati, dicevano i latini, ma per l’uomo bianco questo non vale, quando sono assunti coi “selvaggi”. Perfino per le autorità statunitensi erano carta straccia quelli firmati coi pellirosse nell’Ovest, fumo negli occhi di popolazioni “primitive”, indegne di considerazione. Dal Trattato inosservato del 1834 sono nate le guerre indiane che hanno insanguinato il West dal 1862 al 1890. Le edizioni Odoya hanno ripreso nel 2020, allestendolo con particolare cura grafica e dovizia di immagini, un classico del giornalista, sceneggiatore e romanziere americano Paul Wellman, Tomahawk. Trent’anni di guerre nelle pianure.
Wellman (1895-1966) è stato uno specialista in materia. Dai numerosissimi lavori - questo il primo, edito nel 1934, col titolo Death on the praire - vennero tratti film hollywoodiani di successo: Le mura di Gerico nel 1948, L’ultimo apache con Burt Lancaster nel 1954, I comancheros con John Wayne nel 1961.
Guerre indiane: un conflitto latente divampato in fiammate violente, cominciato si può dire fin dal primo sbarco di coloni europei nel Nord America atlantico e proseguito con episodi minori addirittura fino al 1924. Un’ostilità radicata, con fasi intermittenti di scontri cruenti e di pacificazioni, trattati, ritiri nelle riserve, provocazioni e nuovi scoppi di violenza.
Il 1862-1890 è solo un segmento di una lunga storia, costata, secondo le stime di fine 1800, la vita di 45-60mila nativi americani e meno di 20mila visi pallidi, più civili che soldati. Infatti, limitatamente al trentennio del volume, altre fonti calcolano in appena un migliaio i militari caduti.
La differenza si deve alla condotta bellica, alle armi e alla diversa tecnologia delle parti contrapposte. Nella prefazione, Wellman fa notare che l’alba dell’età della macchina ha incrociato le propaggini dell’età della pietra, nel Far West. L’uomo bianco si avviava verso l’era industriale, gli indiani intagliavano ancora punte di frecce di selce. La fame di terre e di spazi di un mondo anglosassone in crescita inarrestabile si scontrava con la concezione ancestrale naturista dei nativi. Per loro, il mondo intero e tutto quanto contiene è un dono di Dio, nessuno può impadronirsene in modo esclusivo.
Era contrapposto anche il modo di concepire la guerra. Per gli indiani rappresentava un gioco nobile e pericoloso, da affrontare con coraggio, esercitando le migliori virtù. I bianchi vedevano invece i combattimenti come una sgradevole necessità, da sbrigare il più rapidamente possibile, annientando il nemico a costo dello sterminio.
Chi vince ha sempre ragione e gli yankee hanno scritto la storia secondo la propria visione, alimentando la leggenda della crudeltà oltre misura dei selvaggi: scalpi, violenze sanguinarie, scempio dei cadaveri nemici. In realtà, gli indiani non riservavano ai bianchi più violenza di quanta non infliggessero alle tribù native avversarie. Se si sono verificati episodi di mutilazioni, non ne sono mancati di clemenza e lealtà, sottaciuti però nella narrazione occidentale.
Wellman non fa sconti all’uomo bianco. È stato uno dei primi autori a operare una lettura delle guerre indiane rispettosa del punto di vista degli sconfitti, che si battevano per affermare la dignità di un popolo e per difendere la propria gente e la libertà. Considerava la conquista bianca del West
“Crudele nel concetto e nell’esecuzione. Nemmeno la scusa della necessità di diffondere la civiltà può moralmente giustificarla”.
Scopo del suo lavoro e dei successivi trenta titoli e oltre è stato restituire il rispetto dovuto ai soccombenti di quella lotta eroica e disperata. Contro il fucile a ripetizione (dal 1865), i cannoni, il telegrafo e la ferrovia, l’indiano a cavallo senza sella e armato di lance e archi non poteva che soccombere, non senza prima battersi fino allo stremo. Era una popolazione combattiva e ha condotto per il possesso dei territori di caccia una guerra a singhiozzo, a volte eroica, spesso spettacolare, ma sempre vana.
Nel 1834, il Governo federale americano ritenne risolta la questione indiana con il trattato che fissava i loro territori oltre l’allora frontiera Ovest degli Stati Uniti. Ma i conquistatori con i lunghi fucili e la lingua biforcuta non mantennero i patti: l’avidità di terreni nel lontano West li portò a violare ripetutamente l’accordo, con la penetrazione di carovane di pionieri, l’insediamento di coloni e l’esercizio cinico della forza.
Gli indiani reagirono dissotterrando ripetutamente l’ascia di guerra, in quelle che in Europa sarebbero state considerate delle insurrezioni. La prima, dei Sioux di Piccolo Corvo nel Minnesota, si accese nel 1862, causando il massacro di numerosi civili bianchi e di un certo numero di militari, ma i nativi ebbero sempre la peggio. Il capo tribù venne ucciso e gettato nella discarica di una macelleria.
A quel primo atto, seguirono tre decenni di scontri, agguati, stragi. Passando dal massacro dei Cheyenne a Washita nel 1868 in Oklahoma e dalla rivincita nel 1876 a Little Bighorn delle tribù riunite sotto Cavallo Pazzo e Toro Seduto, si arriva alla vittoria USA finale, più dannosa per gli americani di una battaglia persa: la carneficina di Wounded Knee Dakota, nel 1890. Falciati anche da cannoni a tiro rapido, caddero 200 Sioux Unkpapa, uomini, donne, bambini, vecchi.
Ai primi di gennaio del 1891, l’ultimo sparuto gruppo di guerrieri ribelli si arrese: l’uomo rosso non aveva la capacità e la forza di condurre una guerra contro l’uomo bianco. E non l’avrebbe più avuta.

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