Stupore indigeno. Le culture native in Brasile tra rituali iniziatici e sfide digitali
- Autore: Massimo Canevacci
- Genere: Letteratura di viaggio
- Categoria: Narrativa Italiana
- Anno di pubblicazione: 2023
Corre voce che sia stato appena pubblicato il nuovo testo antropologico di Massimo Canevacci. Non è vero. O meglio, non del tutto. L’editore Mar dei Sargassi ha effettivamente dato alle stampe il suo Stupore indigeno, ma si tratta di molto di più e di molto altro che un’opera destinata agli addetti ai lavori e agli amanti della materia.
Quello che Canevacci offre con questo suo volume è un viaggio intensamente profondo e fortemente intimo. L’autore ci porta a conoscere tre culture indigene del Brasile, Xavantes, Bororo e Krahô, tre popolazioni che lottano strenuamente per difendere il loro diritto all’esistenza. Una lotta che, a mano a mano che la lettura procede, percepiamo infragilita e in grave pericolo, minacciata dalle potenti pressioni di latifondisti e missionari:
È un genocidio e un ecocidio che dura da cinquecento anni, dal cosiddetto descubrimiento.
Un dramma che nel testo viene più volte denunciato con veemenza.
Sin dall’introduzione, il professore mostra le sue carte:
Questo libro (…) professa e pratica una indisciplina metodologica basata sulla spontaneità e lo stupore”. Quello che farà, da quel momento in poi, sarà un “transitare ai margini”, che sono sì quelli in cui vivono le popolazioni indigene, ma anche quelli del suo sentire, un confine sottile e ineffabile ai bordi delle percezioni e del corpo, là dove questo “si apre ai flussi dello stupore.
È un “corpo poroso” quello che attraversa e si lascia attraversare dai luoghi, e che permette allo stupore di dilatarsi grazie all’incontro con l’altro. Qui sta la chiave per accedere a questi mondi, e non è un caso che l’autore ce la consegni a inizio opera:
Lo stupore è l’attimo prima. Aspettare con calma e frenesia quel momento che può arrivare, che sta arrivando, che è arrivato, in cui una persona, un evento, un oggetto imprevisto quanto atteso ci si presenta di fronte.
Da qui, inutile pensare di tornare indietro: siamo già irrimediabilmente dentro.
Il “dentro” è un appassionato incontro con gli incredibili personaggi in cui via via ci imbattiamo. Bizzarri suonatori di strumenti, autorevoli rappresentanti di culture, entusiasti difensori dei diritti dei popoli indigeni, struggenti compagni di viaggio. Scorrono così sorrisi tenui, “l’imprecisione imprecisa” delle indicazioni locali in Sud America, una partita di calcio tra Xavantes e Guaraní contro argentini, la straziante miseria di una classe di bimbi.
Svetta, sopra ogni cosa, l’assoluta sacralità dell’amicizia. Sono proprio gli indigeni con cui Canevacci si lega di fraterna e sincera amicizia a trascinare lui e noi nel loro mondo, e a rivelarsi il privilegio più prezioso che, solo, potrà aprire le porte di quelle culture. Siamo così rapiti dal “dolce guerriero” xavante Domingos Mahoro’e’o, dall’oscillare “come un metronomo” dell’antropologo Serio Domingues, dal canto sommesso di José Carlos Kuguri.
Il legame con questi uomini è così importante che, alla loro dipartita, l’autore avverte l’esigenza di farsene testimone, di diffondere il valore loro e del loro incontro.
La mia amicizia per lui, per Domingos, è basata anche su questo insegnamento profondo che mi ha dato come lascito e che sento l’esigenza di promuovere ancora e sempre. Per lui e per me. E anche per chiunque voglia interrogarsi costruttivamente sul senso dello stare al mondo, cambiandolo.
Eccolo il significato del lavoro di Massimo Canevacci, tenersi forte alle radici di affetti potenti per poi narrarli al resto del mondo. Lasciarsi travolgere dall’emozione per trasmetterla fuori, e dire la fierezza di quei popoli, la loro bellezza, e gridare forte l’ingiustizia che subiscono da secoli.
L’autore si lascia andare a ricordi molto personali, li alterna a fotografie, a stralci di lettere spedite con tanti francobolli da una parte all’altra dell’oceano, ai racconti dei viaggi in Italia di alcuni rappresentanti di quelle popolazioni, e all’entusiastica accoglienza di quanti hanno avuto la fortuna di ascoltarli.
Un giorno Domingos disse al suo fratello italiano che il suo nome xavante sarebbe stato Póre’õ, cioè uomo animato. Un’immagine davvero felice per definire il professor Canevacci, in cui ritroviamo il suo modo di lavorare senza mai perdere la tenerezza, con l’animo acceso e lo sguardo curioso e allegro di un uomo che osserva il mondo tentando di comprenderlo, per poi raccontarlo. Un professore che, come racconta, non ha mai ricevuto riconoscimenti accademici, ma che ha avuto decisamente di più.
Questo libro è una dichiarazione d’amore al Brasile, ai suoi “incontri imprevisti e anomali”, alla sua “bellezza sconsiderata”. E anche alle maracas, che “non sono un mezzo di accompagnamento, ma un intermediario sonico solista tra mondi separati uniti dallo strusciare dei semi”. Sono loro a farci entrare nella stanza più delicata e potente, da cui sarà molto arduo per il lettore uscire: quella del Funerale Bororo.
L’autore ce ne descrive due, uno dei quali è particolarmente travolgente perché riguarda un uomo a lui caro. Si tratta di un rito estremamente drammatico in cui il corpo del defunto viene lasciato putrefare, poi riesumato, le ossa ripulite, lavate, e trasfigurate in un processo che si fa latore di una pietà e un rispetto di rara intensità. Il cranio del defunto viene cullato e cantato, in un accompagnamento alla tappa finale che è purissimo turbamento.
Cantare per il cranio amato con cui si è convissuto per cinquant’anni è esperienza estrema, la più radicale che abbia mai visto.
Assistiamo a questo rito col fiato sospeso, sentiamo il fruscio delle maracas, seguiamo il canto prima lieve poi accorato, siamo alla mercé di un trasporto indicibile per le povere ossa di una persona che viene accompagnata all’ultima dimora, ed è impossibile arginare lo stupore, tratteniamo il fiato nell’attesa del passo successivo e avvertiamo forte il coinvolgimento dell’autore insieme con la sua necessità etica di documentare tutto.
Canto e choro non sono la stessa cosa, eppure è come se il suo canto trasmigrasse dentro lo choro e quest’ultimo, già così mescolato, tornasse verso il primo. Forse è un incanto, l’incanto che sporca il viso, i suoni e tutto il corpo.
È un viaggio nel profondo di una popolazione e di noi stessi. È una danza, un pianto sommesso, una pietosa preparazione in cui i vivi e i morti si ritrovano in un coro comune.
Per questo, immagino, quando suona una maraca, i morti tornano, tutti i morti di tutti i tempi sono chiamati a danzare per sospendere la morte, i defunti contro la fine.
E quando le fiamme bruciano tutti gli oggetti appartenuti al defunto, l’energia che si sprigiona è potentissima, e travolge anche al di qua della pagina.
Non voglio escludere le emozioni dalle mie ricerche” afferma l’autore, quasi a giustificarsi mentre fotografa e piange. È questa la cifra del suo raccontare, la voce spezzata e allo stesso tempo ferma di una “drammatica iniziazione radicale.
C’è un momento preciso, quello in cui Canevacci abbraccia il teschio del suo amico, in cui la commozione dirompe, l’antropologo lascia il posto all’uomo, o forse le due figure si sovrappongono, in un corto circuito che permea tutto il libro: i due aspetti non sono scindibili, e non solo l’autore ce lo dice sin dall’inizio, ma ce lo mostra, senza alcun velo.
Sento che tutto questo è anche una sfida al mio modo di pensare, alla mia visione del mondo, al relazionarmi con la vita e la morte. A quella che potrebbe essere un’epistemologia stupita. Percepisco un eccesso di coinvolgimento da cui posso tentare di allontanarmi solo avvicinandomi ancor di più, scrivendo, al tuo destino.
Lo stupore guida i passi dell’autore, il suo sguardo meravigliato sulla natura, la partecipazione curiosa in ogni avventura.
Ciò che si chiama dio potevo vederlo in quella infinita distesa di pianure da cui si ergevano schiere di colline verdi, di una bellezza da divorare, da assorbire e deglutire nel sentirsi antropofagi paesaggisti, introiettare così il valore simbolico della natura, quasi fosse un corpo, una torta, un gelato. Il sacro che muove.
Verso la fine del libro, il professore ci accompagna all’università, ed è difficile non provare il desiderio di tornare indietro ed essere suoi studenti, trangugiare i suoi racconti dei riti indigeni della Furaçao das orelhas o del Funeral Bororo, la proiezione di immagini, l’ascolto di musiche (“Er Canevacci a lezzione ha fatto senti’ i Sepultura”), e sperare di essere scelti tra i dieci che lo accompagneranno in una ricerca sul campo in Brasile. Un professore dalle idee “irregolari o indisciplinate”, che trascina i suoi fortunati alunni al di là delle frontiere dell’insegnamento tradizionale:
Ho sempre pensato, e praticato quando possibile, che le mura dell’università non possono rinchiudere l’insegnamento, che è fondamentale uscire fuori non certo per le gite scolastiche, utilissime alle superiori, quanto per l’osservazione micrologica del proprio ambiente e l’incontro con lo sconosciuto, lo straniero esterno e interno.
I numerosi alunni del professore si portano dietro, nel loro cammino, il ricordo affettuoso e appassionato di quanto appreso in quelle aule. Uno di loro è Alessandro Campaiola, che quindici anni dopo torna da lui in veste di editore, e pubblica questo libro.
Massimo Canevacci si concede all’esperienza antropologica con lo stupore entusiasta di un bambino, che corre a giocare dimenticandosi sacchi a pelo e repellenti per insetti, si ritrova in situazioni rocambolesche da cui riesce a uscire in maniera talvolta miracolosa, riportandole con tutte le sfumature della poesia.
Tanti gli episodi che si affacciano come uccelli che volano lontano ma sempre tornano nelle stagioni giuste”. È il suo “metodo indisciplinato dello stupore.
E, proprio come i bambini, torna dalle sue avventure portando con sé i più disparati ninnoli, gli scampoli di ricordi. Sono nove i passaggi del libro in cui l’autore afferma di conservare, talvolta “maniacalmente”, quel lembo, quella spilla, quella foto, quasi a dimostrare che è tutto vero, e a tenere strette a sé le immagini di momenti di vita da cui è impensabile separarsi.
Sentire musica. Passeggiare nel mio quartiere, anche per le strade che conosco a memoria, mi offre una calma di relazioni con lo spazio, l’asfalto, i balconi visti e rivisti, lo scenario dei grandi alberi che si allungano fino al Circo Massimo o le casette del Pigneto quasi fossero miei parenti stretti.
I “margini smarginati” su cui transitare, la porosità dello sguardo, quell’aspettare con calma e frenesia – luminoso ossimoro – in un’imprecisione imprecisa, sono le caratteristiche del viaggio anche sentimentale dell’autore, un viaggio che procede ovunque egli si trovi, tra le popolazioni indigene del Brasile, in un’aula universitaria, o nelle vie del suo Pigneto, che qui si affaccia per ben due volte, come ad accogliere lo stupito ritorno a casa di un vero Póre’õ, uomo animato.
Stupore indigeno. Le culture native in Brasile tra rituali iniziatici e sfide digitali
Amazon.it: 15,67 €
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Stupore indigeno. Le culture native in Brasile tra rituali iniziatici e sfide digitali
Lascia il tuo commento