Oh Dio mio!
- Autore: Anat Gov
- Genere: Religioni
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Giuntina
- Anno di pubblicazione: 2016
Una delle più interessanti drammaturghe israeliane, Anat Gov (1953-2012) portò sulle scene nel 2008 “Oh Dio mio!”, questo testo teatrale ironico, paradossale, inquietante che ora l’editore Giuntina ha riproposto, riscuotendo interesse e successo di vendite. Protagonista è Ella, psicologa e madre single di un ragazzino autistico, che riceve su appuntamento i suoi clienti, sviscerandone e curandone turbe e complessi secondo un tariffario di un certo spessore.
Interpellata telefonicamente da un misterioso e angosciato signor D., accetta di riceverlo con urgenza, e si trova davanti a un omone incappottato, sussiegoso e imponente, che esita a darle informazioni su di sé. Afferma dopo incalzanti pressioni da parte della psicanalista di avere 5766 anni, di essere artista e famoso, orfano dalla nascita e in preda a una secolare depressione: conosce presente-passato-futuro di Ella, sa tutto delle sue difficoltà familiari, sa che è atea, laica e femminista. Pare l’abbia scelta per questo.
Lui è Dio. E pretende di essere aiutato da lei, in un’ora di terapia, a guarire la sua incolmabile tristezza, la sua rabbia secolare, la delusione nei confronti del mondo.
Il dialogo serrato e divertente che si svolge tra i due induce non solo a un sorriso più amaro che rasserenato, ma anche a molte riflessioni.
Il signor D. scoppia a piangere, rivela il suo desiderio di morire, di non essere più l’Onnipotente, e acconsente a ripercorrere sotto la guida di Ella una sorta di anamnesi del suo male oscuro.
“Non sento più niente. Non voglio niente. Non mi aspetto niente. Niente mi interessa, non mi curo di niente”.
All’inizio della creazione, Dio era stato preso da un entusiasmo e da un’esaltazione euforica: inventare il sole, la prima alba, la luna, gli alberi, la coccinella (e anche le zanzare!) l’aveva riempito di incredibile gioia e di orgogliosa soddisfazione. Ma avrebbe dovuto fermarsi al quinto giorno, perché la balzana idea di dare vita all’uomo - di venerdì! - finì inevitabilmente per distruggere la sua pace.
“Che scemo, idiota, fesso, babbeo, imbecille! Che mondo meraviglioso era finché non siete arrivati voi. Un vasto, tranquillo parco safari”.
Con la sagacia puntuta della migliore tradizione yiddish, Anat Gov conduce il confronto tra analista e paziente rivisitando sia il talmud sia gli insegnamenti freudiani, rileggendo ironicamente la Genesi (il tradimento di Adamo, il fratricidio di Caino, l’ubriacatura di Noè…), e poi l’Esodo con i dieci comandamenti, e il libro di Giobbe, per portare a galla le paure di Dio: in primo luogo il suo sentirsi abbandonato, solo, dimenticato da un genere umano ingrato e indifferente. In questo l’autrice si fa eco delle più recenti tesi teologiche, che ripropongono un Dio impotente di fronte al male, un dio che patisce e com-patisce, più vicino alla terra che alle sfere celesti. Ma lo fa sogghignando, un po’ sadicamente, soprattutto quando mette in bocca alla psicanalista una dura requisitoria contro la crudeltà divina nei confronti dell’umanità, e in particolare del popolo eletto: solo riscoprendo in se stesso la propria fragilità, solo umanizzandosi e riconoscendo le sue angosce, la sua sete d’amore, i suoi sensi di colpa, il Padre Eterno potrebbe guarire, e recuperare un rapporto positivo con le sue creature.
Il finale buonista, che si apre a un miracolo insperato - con il signor D. che esce di scena rappacificato e Ella più vacillante nel suo ateismo, ma professionalmente vittoriosa - cede un po’ della sua verve scoppiettante e ironica: continuando tuttavia a pungolare il lettore con interrogativi coinvolgenti.
Oh Dio mio!
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