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Recensioni di libri

La “melanconia” dell’uomo di genio di Aristotele

Un testo straordinario, che anticipa di 2500 anni le moderne concezioni psicosomatiche, indaga la natura degli atrabiliari e supera la denigrazione morale derivata dall’organismo.

Graziella Atzori Pubblicato il 20-12-2020
La “melanconia” dell'uomo di genio

La “melanconia” dell’uomo di genio

  • Autore: Aristotele
  • Genere: Classici
  • Categoria: Saggistica

Straordinario il piccolo trattato attribuito ad Aristotele La “melanconia” dell’uomo di genio, edito da Il Melangolo (1981, pp. 52), con testo greco e traduzione a fronte, a cura di Carlo Angelino e Enrica Salvaneschi, arricchito dalle riproduzioni grafiche di Albrecht Dürer. I curatori stendono anche una lunga nota che offre una panoramica sulla teoria delle melanconia nel corso del tempo, dalle concezioni classiche greche e arabe, passando per gli studi umanistici neoplatonici a Firenze di Marsilio Ficino e Teodoro di Gaza. Si deve a quest’ultimo "la rivalutazione del "privilegio del genio" che rendeva il furor melancholicus sinonimo di furor divinus", ossia il melanconico è da lui visto simile agli dei, anzi al dio Saturno, "pianeta contemplativo e mente del mondo". Con ciò si crea una correlazione cosmica tra l’individuo e il tutto.

Testo straordinario questo per almeno tre motivi: l’autore, seguendo i principi della medicina di Ippocrate, unisce i 4 temperamenti fondamentali (collerico, flemmatico, sanguigno e melanconico) agli umori del corpo, con una visione olistica che anticipa di 2500 anni circa le moderne concezioni psicosomatiche, secondo le quali corpo e anima sono inscindibilmente uniti e si influenzano reciprocamente. Altro motivo di profondo interesse per noi è aver tolto gli atrabiliari o melanconici dalla categoria della malattia per assegnarli a quella degli eccezionali "per natura". Il terzo punto sta nel superare la denigrazione morale derivata dall’organismo, puntualizzano i curatori, "morso continuamente per la sua stessa costituzione". Organismo tormentato da "tensione violenta cui è sottoposto". Ne deriva "la necessità del piacere, purché intenso, che possa scacciare il dolore innato".
È lo Stagirita a chiedere, nell’incipit del trattato:

"Perché tutti gli uomini eccezionali, nell’attività filosofica o politica, artistica o letteraria, hanno un temperamento melanconico - ovvero atrabiliare - alcuni a tal punto da essere perfino affetti dagli stati patologici che ne derivano?"

La sua risposta è che gli individui in questione sono diversi per un eccesso di atrabile o "bile nera", l’umore che, se freddo, produce depressione fino al desiderio di suicidio; se caldo invece induce entusiasmo, la "mania" platonica causa di grandi gesta e grandi pensieri. Il calore è tipico della gioventù e pure dei melanconici.
Tra gli atrabiliari Aristotele annovera Eracle, infatti preso da furore l’eroe uccise i propri figli; e poi Empedocle, Socrate, Platone.
Compara il temperamento melanconico agli effetti del vino. Sia il vino sia l’atrabile contengono aria e schiumano. Importante è la parola αφρός, "afros", schiuma così eccedente che va espulsa per apportare sollievo nello stato acuto delle melanconia. Afrodite è la dea ricolma di “afros” (etimologicamente schiuma, ma anche afrore), nata dalla schiuma del mare, la quale nel mito è lo sperma dei genitali di Urano, caduti in mare dopo l’evirazione subita da Urano per mano del figlio Saturno. Per tale motivo i melanconici sono sempre di necessità lussuriosi. Assumono diverse caratteristiche: iracondi, filantropi, compassionevoli. Tra essi vi sono "pure la maggior parte dei poeti".

Secoli dopo il medico Areteo (secondo secolo d. C.), il cui saggio è stato aggiunto in appendice al volumetto, sulla scia di Aristotele afferma che i melanconici sono

"affetti da bile nera, perché con "bile" designiamo contemporaneamente per traslato, la passione, e con "nera" il suo essere grande e selvaggia."

Ciò che fa grande il melanconico è la possibilità di raggiungere un equilibrio. Per non sconfinare nella pazzia a cui conduce l’eccesso di pathos. Non diversamente insegna lo sciamano Castaneda quando parla dell’"uomo di conoscenza" come di colui che esercita la "pazzia controllata".
Il riferimento più poetico ad Aristotele per i curatori è Schelling, la sua ipersensibilità che vede "il velo di tristezza che si stende su tutta la natura" e quindi pure Heidegger studioso di Schelling. In chiusura della loro nota essi pongono una splendida citazione heideggeriana che unisce melanconia e nostalgia, presenti sia nell’uomo che in natura:

"Ciò che vi è di più oscuro e quindi di più profondo nella natura umana è la nostalgia che è, per così dire, la forza di gravità interiore dell’animo e che perciò nella sua manifestazione più profonda è malinconia. È in particolare per mezzo di essa che viene mediata la simpatia dell’uomo con la natura. Anche ciò che vi è di più profondo nella natura è malinconia: anch’essa s’attrista per un bene perduto, e ogni vita è accompagnata da un’indistruttibile malinconia perché ha sotto di sé qualcosa di indipendente da sé (ciò che sta sopra innalza, ciò che sta sotto attira in basso)".


© Riproduzione riservata SoloLibri.net

Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: La “melanconia” dell’uomo di genio

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