

L’attesa del diavolo
- Autore: Mary MacLane
- Genere: Storie vere
- Categoria: Narrativa Straniera
- Anno di pubblicazione: 2024
Un libro che è il racconto di una fuga, una fuga passiva compiuta nell’immobilità apparente della scrittura che tuttavia riesce perfettamente nel suo scopo. L’attesa del diavolo di Mary MacLane, portato per la prima volta in Italia dalla casa editrice Ago Edizioni nella traduzione di Sofia Artuso, fu un libro scandalo nell’America del 1902.
Fu pubblicato in aprile – non a caso lo stesso mese scelto da Ago Edizioni per la sua prima edizione italiana – dalla prestigiosa casa editrice Herbert S. Stone and Company di Chicago con il titolo The Story of Mary MacLane, sostituendo il provocatorio originale: I Await the Devil’s Coming.
Il libro suscitò subito scalpore, in quanto era l’opera di una sconosciuta adolescente che viveva a Butte nel Montana, la diciannovenne Mary MacLane che rigettò nelle pagine una successione di pensieri incendiari, senza freni né censure. Era la prima volta che la soggettività di una donna veniva messa su carta in maniera così prorompente. Poteva definirsi “romanzo”? Il testo sfuggiva a qualsiasi categoria di genere. Forse era più corretto chiamarlo diario o confessione, una sorta di stravagante memoir.
In realtà quel libro era soprattutto un tentativo di fuga: il fil rouge che legava pagina dopo pagina era l’attesa sfrenata della felicità – che però MacLane spesso chiamava “il Diavolo”, proprio per il suo carattere tentatore e quasi demoniaco. La felicità è una lusinga, una allettante tentatrice in grado di avvolgere la mente nelle spire insidiose del desiderio e, di conseguenza, un peccato, soprattutto in una società ancora fortemente intrisa di religione sino a sfiorare il puritanesimo.
Quando la mia Felicità mi sarà data, l’Inquietudine seguiterà ad accompagnarmi, di ciò non dubito, ma la Felicità ne cambierà il valore, la renderà uno strumento di gioia, le stringerà la mano e vi si mescolerà; nel mentre io, con il mio cuore di pietra, il mio corpo di donna, la mia mente e la mia anima saremo in estasi.
Quel libro sancì la fuga di Mary MacLane e il suo destino di scrittrice. Ne furono vendute centomila copie e la cifra ricavata dai diritti d’autore permise alla diciannovenne Mary di andarsene dal suo “natìo borgo selvaggio”, quel luogo claustrofobico chiamato Butte, nel Montana, che la tratteneva a sé con la persistenza atavica delle radici. Era quello che Mary voleva: aveva scritto per uscire da un limbo, per liberarsi dalla palude di un’attesa senza fine di giorni che trascorrevano lenti nel tedio e nell’insignificanza. L’attesa del diavolo non era uguale a nulla che fosse stato scritto fino a quel momento; anticipò di molto i celebri Diari di Sylvia Plath che sarebbero stati pubblicati postumi per la prima volta nel 1982. Era la prima volta che una giovane donna si metteva così a nudo sulla pagina scritta, mostrando la pienezza vibrante della propria vita interiore e il languore del proprio desiderio.
L’attesa del diavolo era una storia vera, scritta con il sangue e con il cuore dal principio alla fine, sin dalle primissime righe che sembrano squarciare la pagina e rivelarci il prodigio unico e irripetibile di una coscienza.
13 gennaio 1901
Io, nata di genere femminile diciannove anni fa, inizierò ora a tracciare un Ritratto quanto più fedele e sincero possibile di me stessa, Mary MacLane, che al mondo non ha simili.
In questa voce sembra di udire l’eco del cuore battente di Sylvia Plath che rivendica l’antica vanteria: “io sono io sono io sono”. Eccolo quell’io, prima persona singolare (in questo caso spiccatamente femminile), unico e inderogabile, non cedibile, strettamente legato alla propria inalienabile singolarità.
La giovane Mary rivendicava sulla carta l’eccezionale evento di essere sé stessa; si definiva un genio dalla mente aperta e una “filosofa della mia personale e valida scuola peripatetica”. Non aveva paura di dire né di raccontarsi, persino nella sua noia, nella sua insoddisfazione, nella sua inesausta ricerca della felicità che si risolveva in un senso lancinante di attesa.
Quel che Mary MacLane non poteva sapere – o prevedere – era che la sua storia non sarebbe stata solamente la sua storia, ma avrebbe dato voce a milioni di giovani donne che vivevano la sua stessa condizione. Ciò di cui MacLane avrebbe dato atto, nelle pagine brucianti de L’attesa del diavolo, era l’adolescenza, ovvero quella condizione di incertezza, di indefinitezza che si agitava in un’attesa irrisolta e in un desiderio che non ha nome – eppure c’è ed è indomabile. Ogni pagina dava voce a un pensiero inesprimibile – sia in senso filosofico che in senso romanzesco – e traduceva una ribellione che attraversava le donne dell’epoca, costrette al silenzio di una vita ritirata e vuota dalla bigotta società americana.
La voce di Mary MacLane era la voce di tutte loro; per questo ancora oggi ci appare così incredibilmente attuale. Il successo del libro – che in America divenne un autentico bestseller – era dovuto al fatto che lettrici si riconoscevano nelle parole coraggiose di questa giovane donna che aveva avuto l’ardire di esprimere la propria infelicità facendone un atto di rivolta, giurando di essere pronta a vendere l’anima al diavolo in cambio di un meraviglioso attimo di ebbrezza e di estasi.
Nel libro è presente anche un dialogo con il diavolo, in bilico tra sogno e visione, che ricalca lo schema delle Operette morali leopardiane: nel corso della conversazione Mary afferma di essere disposta a sposarsi con il diavolo e di rifiutare il matrimonio vero – nel quale già coglie il pericolo di un’oppressione – in quanto l’unione matrimoniale con un uomo non le avrebbe regalato che “tre giorni” di felicità prima di trasformarsi in tutt’altro.
Il Diavolo, nella visione della scrittrice, non è un tentatore ma un Salvatore, ciò che le permette di riscattarsi dal “nulla” in cui si sente imbrigliata.
La critica americana non fu affatto indulgente nei confronti del bestseller di MacLane: “Mary MacLane è pazza”, tuonò il New York Herald in un articolo che ricorda una moderna caccia alle streghe:
Dovrebbe essere sottoposta a cure mediche e le penne e la carta dovrebbero essere tenute lontane da lei.
All’epoca, proprio come accade ancora oggi, se una donna confessava la propria ardente infelicità o rivendicava il proprio desiderio veniva giudicata pazza o nevrotica o, nel migliore dei casi, bisognosa di cure. L’attesa del diavolo fu accusato di oscenità e rimosso da librerie e biblioteche, negli anni sarebbe stato oggetto di una terribile operazione di censura e di un vero e proprio tribunale dell’Inquisizione scivolando progressivamente nell’oblio.
La Butte Public Library, del paesino natale di MacLane, fu la prima a rimuoverlo dai suoi scaffali in un atto di protesta.
Ma nulla poteva arginare il fenomeno che sarebbe stato definito dai giornali come “MacLaneismo”, una specie di febbre che aveva contagiato irresistibilmente i lettori. La squadra di baseball di Butte si fece chiamare The Mary MacLanes in onore del libro e della sua autrice; fu addirittura coniato un cocktail con il suo nome.
Non ci fu solo gloria, al libro si affiancò presto una fama cupa, accreditata da numerosi casi di cronaca: una ragazza di Chicago rubò un cavallo e, quando fu arrestata, disse di averlo fatto perché stava scrivendo un libro proprio come Mary MacLane e quindi doveva trasformare l’esperienza in scrittura. Secondo alcuni articoli di cronaca dell’epoca L’attesa del diavolo provocò una serie di suicidi a catena tra le adolescenti: una quindicenne ingerì dell’arsenico e fu ritrovata morta con il libro di MacLane tra le mani.
Questi episodi furono usati dai critici per screditare l’opera di MacLane e, in seguito, per promuoverne la censura. Eppure è chiaro che le pagine vibranti dell’Attesa del diavolo non inneggiano al suicidio né alla morte: alcune sono degne di un trattato di filosofia, come la riflessione sulla felicità e il suo manifestarsi, altre sono irresistibilmente audaci come l’episodio sensuale in cui Mary racconta di mangiare con voluttà un’oliva, “di nuovo la croccantezza amara e salata incanta la mia lingua”, rivendicando l’impulso erotico femminile. C’è anche l’amore: l’amore idealizzato come ipotetico desiderio per uomo, un uomo simile al Diavolo che ancora deve arrivare; e l’amore espresso tramite lettere palpitanti alla sua insegnante Fanny Corbin, chiamata “La dama dell’anemone”, in cui si rivela la vera anima di MacLane, agitata al contempo da impulsi femminili e maschili in un perenne dissidio. Nelle pagine de L’attesa del diavolo troviamo, ante litteram, l’espressione di una sessualità fluida e di un’omosessualità non poi così latente.
Mary MacLane avrebbe scritto altri libri, My friend Annabel Lee (1903) e I, Mary MacLane (1907), senza tuttavia ottenere lo straordinario successo di pubblico del suo romanzo d’esordio. Quando L’attesa del diavolo fu censurato il suo nome cadde progressivamente nella dimenticanza. Visse a lungo a New York, in un appartamento del Greenwich Village e fece numerosi viaggi in Oriente.
La felicità tanto agognata, dopotutto, Mary MacLane l’aveva ottenuta: ma era stata lei la prima a dire, anzi a scrivere, che la felicità era transitoria, aveva breve durata. Le fu diagnosticata la tubercolosi. Durante i suoi ultimi anni di vita fu assistita dalla fotografa afroamericana Harriet Williams, che aveva conosciuto a New York dopo l’uscita de L’attesa del diavolo.
Morì a soli quarantotto anni, il 6 agosto 1929, in una stanza del Michigan Hotel. Leggenda narra che stringesse una copia del suo primo libro tra le mani: in quelle pagine c’era tutta Mary MacLane e il suo destino.
Mary Mac Lane, se vivrai – se vivrai, mia cara, un giorno il mondo riconoscerà il tuo genio.

L'attesa del diavolo
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