L’antipatico. Bettino Craxi e la Grande Coalizione
- Autore: Claudio Martelli
- Genere: Politica ed economia
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: La nave di Teseo
- Anno di pubblicazione: 2020
I libri di Claudio Martelli sono in primo luogo esemplari di una grande narrazione, condotta con uno stile di scrittura fascinoso e vibrante, in virtù soprattutto di una qualità peculiare, si potrebbe dire sinfonica, della memoria, che nutrendosi di ragione e anacronistico buon senso annoda una pagina dopo l’altra eventi privati e pubblici in un ragionamento che acquista lo spessore di una testimonianza culturale e civile di ammirevole chiarezza argomentativa, rigore storico ed energia morale. Uomo di lettere in senso illuministico, erede consapevole di una fertile tradizione umanistica, lo scrittore Martelli si caratterizza per un equilibrio felice tra saggismo di stampo anglosassone e la forma nitida di un pensiero che impenna il discorso oltre i confini della memorialistica, nel terreno al contempo concreto e ideale degli archetipi che alimentano la più alta letteratura filosofica e politica. Per inciso, tra le seduzioni e le suggestioni che il suo stile di narrazione offre al lettore vi è anche questa: i libri di Martelli parlano incessantemente di altri libri, in un dialogo fertile e nutritivo (giacché in fin dei conti “si impara solo da chi si ama”, come soleva ripetere Goethe al suo fedele allievo e segretario Eckermann) con il gusto e la responsabilità dell’interlocuzione, del confronto, della sfida (e non si dovrebbe ravvisare in tutto ciò al contempo una radice tenace e nutritiva dell’idea socialista?).
In quest’ottica riteniamo vada letto anche L’antipatico. Bettino Craxi e la Grande Coalizione (La nave di Teseo, 2020), che non è uno scritto apologetico, un revival nostalgico di una stagione politica passata, una testimonianza oleografica sulla vita e le imprese di un grande leader "visto da vicino" da un amico e interlocutore privilegiato, ma piuttosto un saggio magistrale di come una riflessione su un dato storico reale, articolata in una dimensione critica e storiografica di grande rigore, possa contribuire a illuminare e arricchire la complessa lettura della realtà contemporanea.
Il libro nasce da due domande essenziali:
"Perché (Craxi) era antipatico? E perché io ho passato vent’anni a difenderlo e ancora non ho smesso?"
Questi interrogativi innescano una riflessione sul filo della memoria, storica e personale, su un uomo politico, un personaggio storico, che intrecciandosi alla biografia di una Nazione produce una serie di stimoli che inducono l’autore (e il lettore compartecipe) a rileggere oltre la superficie la vicenda dell’uomo e del politico Craxi (strettamente connesse, come ricorda Martelli, con l’efficace stilema latineggiante "totus politicus") nel contesto di un’epoca complessa e controversa della nostra recente Storia nazionale.
Craxi è stato non soltanto un leader politico, ma soprattutto un uomo di governo consapevole della natura e responsabilità di uno Statista, "ovvero di chi ha nozione che la Sovranità è l’essenza dello Stato". Pertanto Martelli ne riesamina il profilo, risalendo alle origini e alla severa formazione intellettuale e morale del politico Craxi, senza mai prescindere dall’uso di strumenti critici che pertengono alla "categoria del politico", sottraendolo alle interpretazioni deformanti delle cronache giudiziarie e mondane e restituendolo alla sua legittima statura di uomo di Stato dotato di uno spessore profondo di pensiero e una lucida responsabilità nell’agire. Alle tante domande che ricorrono nelle pagine di questo libro si succedono altrettante risposte significative: Craxi era antipatico perché "era alto e robusto, imponente e ingombrante; perché non curava il suo aspetto fisico e la sua etichetta"? Certo, ma non basta. Perché non era ipocrita, non condivideva i rituali levantini della politica statolatrica ed era immune dalla retorica bizantina fondata sugli ossimori e gli equilibrismi linguistici e dialettici da cui scaturivano i "cauti connubi" e le "convergenze parallele" praticate virtuosisticamente da colleghi ed avversari? Senza dubbio. Oltretutto, aveva conservato il retaggio materno della schiettezza e spavalderia popolana e la finezza intellettuale del padre avvocato e partigiano. Ma soprattutto, rispetto all’iconografia del potentato arrogante e debordante eretto a simbolo negativo della Prima Repubblica e dei suoi aspetti deteriori, dalla lettura di queste pagine emergono nitidamente l’intelligenza e l’acume di Craxi nell’assimilare e rielaborare criticamente insegnamenti ed esempi di amici e maestri come Virgilio Dagnino, allievo di Carlo Rosselli e mediatore dunque di una lezione ancora vitale e spendibile nel presente di "Socialismo liberale", o di un padre nobile della famiglia socialista, Pietro Nenni, da cui Craxi seppe riprendere e far proprio un magistero di tattica politica che determinò il suo peculiare decisionismo, oggetto di ammirazione o di avversione costante da parte di alleati e avversari, ma pur sempre un tratto distintivo dell’uomo di partito e di governo. Distintivo del resto fu anche il respiro internazionale della politica craxiana, il suo saldo ancoraggio a un socialismo di marca riformista, in spregio a ogni velleitario rigurgito massimalista, declinato in modo creativo e con spregiudicato realismo nelle forme di un "Socialismo tricolore" (che presuppone una coscienza di un’identità nazionale estranea alla natura e alla sensibilità degli altri leader politici italiani del tempo) e di un’autorevole e lungimirante politica estera in qualità di capo del governo più longevo e "produttivo" della storia repubblicana.
Sono tutte risposte che rimarcano la straordinarietà e la diversità dell’uomo e del politico, definendone la singolarità (la solitudine?), e dunque l’"antipatia" rispetto allo scenario politico di quegli anni, gremito di "parole vuote, simulacri di una politica senza vigore, senza pensiero, senz’anima", e che contengono già in nuce i presupposti di una vocazione alla leadership, al potere, al successo e i prodromi forse del suo improvvido declino, tra gli strali degli "indignati" nella tragica temperie di "Tangentopoli" e senza tacere incomprensioni ed errori di valutazione. In particolare, all’apice del prestigio e del potere, la sfida mancata di "consolidare l’area e l’alleanza dei socialisti con i socialdemocratici, i radicali,e anche di rilanciare il dialogo lib-lab", anziché persistere nell’alleanza con la DC, cosicché
"il decisionista diventò un temporeggiatore , il rinnovatore un custode del presente."
Ma forse, questo libro che non è un’agiografia né un’oleografia, custodisce nelle sue domande e risposte un pensiero di fondo, che è anche un modo di sentire, un sentimento che si ostina ad ardere come una fiammella votiva in quel "cimitero di dittatori armati, di grandi uomini di stato e di profeti disarmati" che è la Storia umana. Ed è il pensiero, estremo, machiavelliano, di una figura grande e tragica della Storia nazionale (e dunque anacronistica e inconciliabile rispetto al repertorio del cosiddetto "teatrino della politica", oscillante tra farsa e commedia), che al massimo grado delle sue possibilità, affrontando una realtà che mutava e degradava nel momento stesso in cui egli offriva il meglio di sé, ha incontrato la sconfitta, la persecuzione (dei moralisti di professione, innanzitutto), l’esilio e la morte in terra straniera. Una figura non dissimile, e altrettanto tragica e magnanima, da quella di molti padri del Risorgimento da lui prediletti e amati con un fatale sentimento di filiazione, di appartenenza.
L'antipatico. Bettino Craxi e la grande coalizione
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