Partido Animalista - PACMA - from España, CC BY-SA 2.0, via Wikimedia Commons
È una giornata di pioggia a Roma, incontro Rosa Montero in un hotel adiacente alla stazione Termini e lei sembra uscita direttamente da uno dei suoi libri, nei quali tende a coinvolgere il lettore interpellandolo con il “tu”, con un’attitudine molto giornalistica, proprio come nelle sue celebri interviste per El País. Mi saluta affabile “Hola, Alicia!”, come se già mi conoscesse, e mi abbraccia con una cordialità e un’esuberanza molto spagnole. Nel corso della nostra chiacchierata avrei scoperto che detesta Murakami - che io, ignara, le ho citato per ben due volte - e che le sue ossessioni ricorrenti nella scrittura sono simboli apparentemente agli antipodi, ovvero i nani e le balene.
Nel suo ultimo libro, Il pericolo di essere sana di mente (Ponte alle Grazie, 2024), tratta un tema spinoso, a tratti inquietante, ovvero la correlazione tra creatività e follia.
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C’è un noto detto popolare che dice: “Tutti i geni sono matti”; la scrittrice e giornalista Rosa Montero dimostra che è vero, ma lo fa con una deliziosa ironia che si mescola a un’attenta e documentata analisi, passando in rassegna saggi di psichiatri, neurologi, psicoterapeuti e le vite curiose di alcuni dei maggiori scrittori della letteratura mondiale (Hemingway, Woolf, Fitzgerald, Plath, Proust, Janet Frame e altri), tutti insidiati da manie, vizi, nevrosi, pensieri suicidi, comportamenti suicidari o, nel migliore dei casi, da malattie neurologiche, quali l’epilessia per Dostoevskij, o patologie nervose, come il bipolarismo di Emmanuel Carrère.
Del resto non accade diversamente a famosi artisti, da Van Gogh a Picasso, perseguitati dallo stesso demone della follia. La domanda inquietante e sommessa che il libro di Montero ci pone è: se questi artisti geniali fossero stati trattati con i metodi terapeutici attuali, avrebbero creato lo stesso le loro opere? Ad esempio, se Van Gogh fosse stato curato avrebbe sofferto di meno? Magari sarebbe stato possibile salvarlo?
In questa rassegna documentata sul legame tra creatività e follia, Rosa Montero inserisce anche sé stessa, disseminando tra le pagine intermezzi autobiografici in cui narra il suo rapporto tormentato eppure vitale con la scrittura, unito alle sue manie, agli attacchi di panico di cui ha sofferto in gioventù e la Sindrome dell’Impostore che colpisce, insidiosa e silente, soprattutto le donne che scrivono.
Essere romanzieri, scrive Rosa Montero, significa non aver paura di visitare tutti i “mondi possibili”; vivere costantemente in bilico tra due realtà e questo comporta che gli scrittori, più o meno tutti indiscriminatamente, soffrano di un certo grado di dissociazione. Esiste dunque un legame tra creatività e follia? Gli scrittori non sono “sani di mente”? Ma, soprattutto, cosa succede al nostro cervello quando creiamo?
Il pericolo di essere sana di mente è in libreria dal 13 settembre per Ponte alle Grazie. Ne ho parlato con l’autrice in questa intervista.
- L’analisi del processo creativo è qualcosa che la affascina. Anche in un suo precedente libro, La pazza di casa (Salani, 2015), rifletteva sulla correlazione tra creatività e follia. Scriveva che: “Essere romanzieri significa convivere felicemente con la pazza di casa”. Diceva che gli scrittori sentono voci, come chi è affetto da schizofrenia. Questo suo nuovo libro è uno sviluppo di questa riflessione?
Più che lo sviluppo questo libro contiene le risposte alle domande che mi sono fatta ne La pazza di casa. Ne La pazza di casa mi facevo delle domande che giravano nella mia testa da sempre, e la cosa incredibile e affascinante per me è che in questo libro sono riuscita a darmi le risposte, per esempio la relazione tra creatività e follia, cos’è la follia e cos’è l’essere sani, quali sono i limiti e le differenze tra la realtà e l’immaginario. E, infine, ho capito perché io ho un cervello così strano...
- Secondo lei la scrittura è un processo costruttivo o decostruttivo?
Per me la scrittura è come un esoscheletro che mi tiene in piedi. Come la maggior parte degli scrittori ho iniziato da bambina, i primi racconti li ho scritti a cinque anni e parlavano di topini che chiacchieravano tra loro. Quello che voglio dire è che la mia memoria di me stessa - perché di solito i ricordi iniziano a quell’età - la memoria di me è legata a me che scrivo. La scrittura forma quindi una parte essenziale, basilare di ciò che sono, io non esisterei se non scrivessi.
- Scrive “Ogni scrittore ha i suoi fantasmi che lo perseguitano come cani da caccia”. Quali sono i suoi?
Il problema è che l’autore è incapace di vedere i propri fantasmi. Per lui è molto difficile individuarli. Per esempio mi è capitato di dire a uno scrittore mentre lo intervistavo: “Hai notato che nei tuoi libri ci sono sempre delle navi?” E lui mi ha risposto: “Ma davvero? No”. E magari il suo ultimo libro si intitolava proprio Il transatlantico azzurro (ride, Ndr).
Anche per me è molto difficile individuare le mie ossessioni; ad esempio, ho scoperto solo molti anni dopo aver pubblicato i miei primi romanzi che i nani sono personaggi ricorrenti nei miei libri. Un altro fantasma ho scoperto che sono le cicatrici o le mutilazioni: i miei personaggi mostrano una strana tendenza a perdere parti del corpo, braccia, gambe e altro.
Un altro fantasma che ritorna sono le balene. Sicuramente ne ho altri, ma non li ho ancora scoperti perché, come i sogni ricorrenti, sono immagini profonde radicate nell’inconscio.
- Nel libro scrive che l’ispirazione ha alti e bassi e che a volte “la testa scrive meravigliosamente da sola”. Murakami, ne L’arte di correre, sostiene che l’ispirazione non esiste, ma c’è solo la forza di volontà e il duro lavoro. Lei come la pensa?
Diceva Picasso: l’ispirazione ti coglie lavorando. L’ispirazione non arriva così per caso, devi metterti sulla via del lavoro. Esistono, però, dei momenti in cui all’improvviso sembra che tu scriva meglio di quanto tu sappia scrivere. E quella è l’ispirazione data dall’inconscio, ma non succede sempre, devi lavorare perché succeda.
- “La tenacia sembra essere la qualità principale del genio”, riflette molto su questa citazione di Philippe Brenot. Lei in quali occasioni si è sentita tenace? O ha dimostrato tenacia?
Ho visto moltissima gente piena di talento in gioventù, davvero talentuosissima, che però non ha mai concluso niente. Questo perché, come diceva prima anche Murakami - che, per inciso, io detesto come scrittore - devi lavorare duro, l’ispirazione da sola non basta. La tenacia è uno scheletro è qualcosa che hai lì, ma devi saperla usare per sostenerti. Questa è la definizione precisa di “tenacia”: la capacità di continuare giorno dopo giorno. Serve tenacia per pensare, per scrivere, anche per leggere. Perché non si può scrivere senza leggere.
- Scrive: “Penso che la paura della follia sia anche l’insicurezza della propria sanità mentale”. Lei ha mai avuto paura della follia?
Io ho iniziato ad avere attacchi di panico a sedici anni e sono durati fino ai trenta. Quando ho avuto il mio primo attacco di panico, a sedici anni, ero terrorizzata e credevo di essere matta, poi invece ho iniziato a rivalutare i limiti tra follia e sanità mentale. Io so di essere una nevrotica, anzi, ci convivo benissimo (ride, Ndr).
Quello che affermo nel libro è che la realtà non è affidabile, la realtà è una costruzione sociale o culturale. Per esempio se oggi arrivassi da te e ti dicessi: “Ho visto il demonio”, tu penseresti che io sono impazzita e mi faresti subito ricoverare.
Ma se fossimo nel dodicesimo secolo sarebbe una storia molto interessante e tu mi chiederesti: “Cosa hai fatto? Gli hai mostrato la croce di Dio?”. Quindi la realtà è un costrutto culturale e sociale, non esiste a sé stante.
Come dico nel libro: noi viviamo all’interno di uno “specchiamento”. Nel centro dei nostri occhi c’è un punto fermo, dove il nervo ottico si inserisce nella retina l’occhio non vede. C’è un punto completamente cieco e non è piccolo, sono due gradi dell’arco visivo, tieni conto che la luna è un mezzo grado, quindi immaginati quanto è grande questo punto cieco.
Un punto cieco è necessario, perché il cervello inventa quello che non vede. E, in fondo, neanche quello che vediamo è affidabile; l’inconscio della gente sa bene che è così, anche senza saperlo completamente. Per questo la gente ha paura di diventare matta, perché sa che la normalità è una convenzione, che può sgretolarsi da un momento all’altro.
- Pensa che la normalità sia sopravvalutata?
Nel 2018 a Yale hanno fatto uno studio e hanno concluso che la “normalità non esiste”, non è altro che la media statistica di tutte le posizioni degli esseri umani di fronte a un fatto. E tra l’altro queste medie statistiche sono finte, per esempio dire che una coppia di spagnoli debba avere “mezzo figlio”: è una condizione irreale.
Secondo questa visione scientifica ci toccherebbe appena un quarto delle cose. Non c’è nessuno al mondo che attiene perfettamente alla media scientifica di tutti i parametri, quindi siamo tutti divergenti in qualcosa. La normalità non esiste, non in modo assoluto.
- Il suo ultimo libro intreccia vari generi: saggio, autobiografia, memoir. A un certo punto scrive: “Ho l’impressione di star facendo una sorta di autopsia invertita della creatività”. Le è riuscita questa autopsia?
Direi di sì. Quando scrivevo La pazza di casa avevo milioni di domande sulla creatività e nessuna risposta, finalmente scrivendo questo libro ho trovato le risposte che cercavo.
Come dico nel libro, per arrivare alla creatività ci vuole la “tempesta perfetta” e molte circostanze devono coincidere. E non è una cosa che ho inventato io, lo dicono gli esperti. Il tuo cervello deve essere cablato in un determinato modo, devi essere neurologicamente immaturo o comunque avere sempre una testa predisposta all’immaginazione.
- Ne “Il pericolo di essere sana di mente” scrive che la sua mente inventa storie di continuo, senza sosta, non smette mai di creare. Quale storia sta immaginando in questo momento?
Posso raccontare quella che ho immaginato ieri sera, mentre guardavo fuori dalla finestra dell’albergo. Vedevo quella casa lì (me la indica, Ndr) e quindi ho pensato: chissà cosa potrebbe succedere là dentro. Così mi è venuta in mente una storia un po’ sciocca. Ho immaginato una persona che trascorreva le sue giornate seduta su una sedia fissando fuori dalla finestra. Ma non è che mi interessi davvero come storia, semplicemente prima di andare a dormire ho fissato fuori dalla finestra e ho immaginato questa storia. È durata un minuto, mezzo minuto, non so.
Sono realtà parallele, non sono idee per libri, è immaginazione fine a sé stessa. Come quando aspetto l’ascensore e mi trovo a immaginare che dentro ci sia un morto. Racconto un episodio simile anche nel libro.
Non sono racconti volontari, ma è semplicemente la mia mente - e così quella di ogni scrittore - che funziona in questa maniera, perché non può fare a meno di immaginare.
Si ringrazia Pietro Cecioni per la traduzione simultanea.
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Rosa Montero, in libreria con “Il pericolo di essere sana di mente”
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