In Romanzo senza umani (Feltrinelli, 2023), Paolo Di Paolo ci dice che l’unica cosa che possiamo realmente predire è il passato. Il tema centrale del libro non è tanto la catastrofe climatica né le insidie dell’intelligenza artificiale, ma un’inchiesta sulla memoria e i suoi artifici. Viviamo nel presente, ambiamo al futuro, ma la nostra mente rimane costantemente rivolta al passato. L’unica grande, terribile domanda, che rimane da porsi in fondo è questa: “cosa ricordano gli altri di noi?” Che traccia lasciamo nella memoria degli altri?
Come un Palomar contemporaneo, lo storico Mauro Barbi osserva la realtà e chi lo circonda, si interroga sulla singolarità delle proprie percezioni.
La glaciazione del lago di Costanza, avvenuta nel tardo Cinquecento, resta sullo sfondo, ma costituisce una chiave di lettura imprescindibile. La vera glaciazione è quella interiore che sta vivendo il protagonista. Il disastro climatico diventa quindi lettura del presente, dell’incertezza della nostra epoca, dell’instabilità umana.
Link affiliato
Noi esseri umani, in fondo, non siamo che un groviglio di percezioni, sensazioni, frammenti di memorie; abbiamo il cuore pieno di simboli. In queste pagine non ci sono conferme né risposte attese, ma una mente pensante che si arrovella trovandosi sempre a fare i conti con i propri limiti, con la “fallibilità dell’umano” che, a ben vedere, è la vera meraviglia, l’assoluto prodigio.
Il risultato è un racconto intimo che diventa universale, un libro che misura la temperatura dell’inquietudine esistenziale del nostro tempo, perché no – come viene prontamente ribadito nel frontespizio – Romanzo senza umani non è stato scritto dall’intelligenza artificiale.
Paolo Di Paolo è uno dei più prolifici scrittori italiani contemporanei e anche uno dei più sperimentatori, sempre pronto a inaugurare nuovi modi e linguaggi per far incontrare libri e lettori. Nel corso del tour di Romanzo senza umani ha sperimentato nuove forme di presentazione aperte al dialogo con il pubblico, come “Lo scrittore è presente” o “La stanza del personaggio”, in cui si metteva in gioco in prima persona nell’incontro e nello scambio di idee, pareri, consigli con i lettori. La letteratura, così facendo, diventa prima di tutto esperienza e Romanzo senza umani lo dimostra, perché è un libro che entra in dialogo profondo con chi lo legge e induce il lettore a interrogarsi, a dubitare, a domandare.
Recensione del libro
Romanzo senza umani
di Paolo Di Paolo
Quali sono le sfide narrative del presente? Ne abbiamo parlato con Paolo Di Paolo in questa intervista.
- In un recente articolo per Treccani hai scritto che non è facile leggere “il presente mentre accade”. A un certo punto in questo libro fai dire al tuo protagonista Mauro Barbi: “Stabile, niente lo è! Tutto è così spaventosamente incerto”. Possiamo dire che Romanzo senza umani in fondo sia questo, un tentativo di dare una lettura del nostro instabile presente?
Innanzitutto credo che il presente sia la sostanza più imprendibile in assoluto, però è l’unica di cui davvero disponiamo, perché il passato risulta irreperibile, inattingibile se non attraverso i meccanismi della memoria; mentre il futuro è un presagio, un progetto, anche qualche volta un sogno, una minaccia. Tutto ciò di cui disponiamo è questa sostanza impalpabile dell’attimo, dell’istante.
La scrittura, secondo me, da sempre cerca di fissare questa verità così ambigua che il presente rivela: l’attimo, l’istante, cerca di circoscriverlo, dilatarlo, farlo esistere. Nel momento stesso in cui provi a fermarlo su carta questo è già superato, è già, in fondo, morto. Tu ti accorgi che questa possibilità di riconoscere il presente è comunque destinata al fallimento. Mi viene in mente Italo Calvino, un autore a cui penso spesso, in particolare mentre scrivevo questo libro ho pensato a Palomar. Viene espresso il tentativo che Palomar fa di scrivere le cose mentre accadono; lui si propone di scrivere tutto, ogni istante della sua vita, e nel finale dice: “finché non li avrà descritti tutti non penserà più d’essere morto”. Però l’ultima frase rende chiaro questo scacco, questa impossibilità di far coincidere la scrittura con la vita perché a quel punto il libro si conclude: “In quel momento muore”. Ogni scrittore cerca di catturare il presente, però si rende conto di riuscire a farlo solo per attimi, per tratti, per microscopici pezzi di tempo che sulla pagina potrebbero dare l’illusione di essere ancora presenti.
- Visto che siamo nell’anno del centenario di Italo Calvino, mi sembrava interessante notare la “costruzione calviniana” del tuo romanzo. Si può dire che hai ereditato da Calvino il gusto per “l’esperimento letterario”. Romanzo senza umani ha una struttura molto particolare: è un ibrido tra romanzo, saggio, memoir e i capitoli non terminano mai con un punto, ogni finale rimanda all’incipit del capitolo successivo…
Calvino è uno scrittore che fa parte dell’aria di famiglia perché i lettori italiani lo incontrano a più riprese durante gli anni di scuola, però spesso avendone un’immagine parziale: è lo scrittore d’avventura, lo scrittore dell’apologo morale, anche i libri della Trilogia degli antenati in fondo non restituiscono l’interezza del percorso calviniano. Cos’è che colpisce di Calvino? Questa sua inquietudine, questa sua dimensione di scrittore costantemente inappagato di ciò che scriveva. È stato uno degli scrittori più mutevoli e cangianti del Novecento, non c’è un libro di Calvino che somigli a un altro libro di Calvino. Questa cosa mi affascina moltissimo perché è il tentativo di costruire ogni libro come se fosse un percorso a sé stante, sebbene con una sotterranea continuità tematica o di espressione. È un tratto di consapevolezza, di autocoscienza del lavoro di scrittore, molto interessante soprattutto in un tempo di scrittori che mi sembrano poco consapevoli, a volte troppo istintivi, privi di un rapporto con la tradizione. In Calvino, invece, si può notare un lavoro ossessivo sulla struttura dei libri. Credo che questo sia un po’ il lavoro che ho fatto anch’io in Romanzo senza umani, proprio con l’intento di portare il lettore dove non è stato, sperimentando questa oscillazione continua tra due tempi di ambientazione, il tardo Cinquecento e l’oggi, attraverso frasi che si spezzano e continuano nel capitolo successivo.
Volevo muovere questa struttura rendendola anche sostanza e contenuto. In fondo la continuità e la discontinuità di ogni tempo, soprattutto del tempo instabile che attraversiamo oggi, è testimoniata da questa struttura. Le scelte strutturali hanno chiaramente una ricaduta sulla sostanza stessa del libro.
- A proposito di struttura, la parte del libro dedicata alla glaciazione del lago di Costanza, nel tardo Cinquecento, mi ha ricordato la sezione centrale di Al faro di Virginia Woolf. Ti sei ispirato a Woolf per creare questa sorta di narrazione impersonale che si svolge “in assenza di occhi umani”?
Virginia Woolf è presente sin dall’epigrafe in questo libro, ed è un’autrice che per me è stata fondamentale. Se dovessi scegliere un libro da portare con me su un’isola deserta, probabilmente sceglierei Al faro o Mrs Dalloway. Per me lei è un genio totale, c’è qualcosa di insuperabile in quello che ha fatto Woolf con la scrittura. Quel capitolo di cui parli è uno dei più impressionanti, dove davvero lei mette in luce questa possibilità di neutralizzare l’umano, di far vivere gli oggetti o il paesaggio naturale mi affascinava moltissimo.
Forse è stato proprio il punto di partenza assoluto del mio libro, perché il titolo mi è venuto in mente pensando proprio di provare a scrivere un romanzo letteralmente “senza umani”; ma mi rendevo conto che era impossibile, quindi io in qualche modo contraddico il titolo stesso, perché nei fatti un romanzo senza umani non è realizzabile. È impossibile perché se anche tu non li prevedi come agenti narrativi, c’è il tuo sguardo e lo sguardo del lettore, quindi è davvero inestirpabile lo sguardo umano, la traccia umana dalla dimensione della scrittura.
- Nel libro infatti è anche presente una riflessione sulla scrittura. A un certo punto il protagonista immagina una distopia catastrofica, che ricorda un po’ un racconto di Borges. Gli alieni atterrano sul nostro pianeta e trovano i nostri libri, li sfogliano, ma ai loro occhi sono indecifrabili e allora, di fronte a questa impossibilità, a questo mistero, scoppiano a piangere.
In particolare mi sono chiesta, perché hai scelto di farli reagire con il pianto e non con il riso?
Per decenni abbiamo pensato di essere gli unici depositari del linguaggio, quando ormai capiamo perfettamente che tutto ha un linguaggio, anche l’inanimato. Ma tutto ciò che su questo pianeta è solo nostro è la scrittura.
È difficilissimo immaginare senza l’umano questa specifica attività, che dalle grotte degli uomini della Preistoria a noi porta avanti dei segni, una sequenza di segni che sono certificazione dell’esperienza, diventano racconto. Allora immagino che la civiltà aliena che avrà trovato le sue forme di racconto, di scrittura, magari anche più evolute delle nostre, arrivando su questo pianeta e trovando cataste di oggetti indecifrabili come geroglifici potrebbe scoppiare a piangere. Proprio per la sensazione che potrebbe avere quella specie aliena, quello sguardo alieno che capisce che lì sia custodito un segreto. Perché penso che veramente se uno vuole capire cosa abbia significato essere umani su questo pianeta per migliaia di anni debba passare dai libri, dai libri intesi come deposito di racconto. Quello di più indicibile, di più segreto, di più intimo, di più misterioso, abbiamo saputo dire di noi l’abbiamo affidato alle storie.
E gli alieni piangono dinnanzi ai libri per una forma di struggimento, avendo la consapevolezza di aver trovato le tracce di una società, di una cultura scomparsa. I libri diventano degli “strani manufatti”, anche questa è un’immagine molto calviniana in fondo, rappresentano le “vestigia della memoria degli umani”.
- Una delle domande più ricorrenti in Romanzo senza umani è: “Cosa ricordano gli altri di noi?” La difficoltà principale si rivela proprio accettare tutte le interpretazioni che danno gli altri di noi, della nostra vita, persino dei nostri ricordi. Questo mi ha fatto pensare che il tema principale del libro in fondo non sia tanto il cambiamento climatico, né una rilettura narrativa del presente, ma la “memoria”.
La scrittura è necessariamente memoria. Perché per quanto tu cerchi di cogliere la verità del presente, in realtà quello che puoi davvero restituire è una memoria, la traccia di un presente che è stato.
Io credo che tutti gli scrittori lavorino, anche quando non se ne accorgono, sulla memoria. Persino l’immaginazione, in fondo, può essere memoria. Mi pare di poter dire che oggettivamente la letteratura e la memoria sono legate veramente a doppio filo. D’altra parte la memoria in narrativa è stata interrogata in tanti modi: la memoria involontaria, la memoria storica, io in questo libro ho cercato di concentrarmi sulla “polverizzazione della memoria”. Nel momento in cui gli altri sono fonti, stabili ma incerte, quella compattezza presunta della nostra memoria viene meno.
Uno scrittore che amo molto, Javier Marías, un giorno mi ha detto che: “Non esiste memoria che quella individuale”. E la memoria individuale è sempre soggettiva, imparziale, ambigua, selettiva, non si può mai estrarre dalla memoria una lezione di storia, solo di una storia strettamente personale.
Noi stessi siamo infedeli alla memoria, la possiamo tradire, riadulterare, rielaborare, mentre gli altri fanno altrettanto, con la loro e con la nostra.
- È anche un romanzo pieno di incontri, di umanità, a dispetto del titolo. Sembra che, attraverso ciascun incontro, il protagonista decostruisca sé stesso, la propria memoria storica. In fondo Mauro Barbi è uno storico, in queste pagine possiamo dire che gli altri, quindi tutte le persone che lo circondano, siano le sue fonti?
Mauro Barbi è trasportato continuamente da altro, da altre epoche, sia della sua vita che della vita del mondo. Alla fine, pensandoci, il Cinquecento su cui tanto si ossessiona in fondo non è altro che una variante della sua adolescenza. In lui c’è proprio questa difficoltà di rientrare nell’epoca in corso.
Forse con Mauro Barbi ho estremizzato dei tratti di personaggi che avevo già narrato nei precedenti miei libri. In uno dei miei primi romanzi, Raccontami la notte in cui sono nato, immagino un ragazzo che vende la sua vita e, facendo questo, vende i suoi ricordi; in Dove eravate tutti il protagonista vuole fare una tesi di storia contemporanea e cerca di mettere sulla linea del tempo le persone della sua vita. Quindi in fondo, pur cambiando stile e prospettive, ci sono dei temi che funzionano come ossessioni circolanti nei miei libri.
Lo stesso protagonista di Romanzo senza umani è uno storico, ma a un certo punto si rende conto che si sta trasformando in uno scrittore. Forse c’è una sorta di parentela strettissima tra questi due mestieri, una sorta di promiscuità.
- Leggendo Romanzo senza umani ho ritrovato un’affinità con altri libri scritti di recente da autori italiani, in particolare con Tasmania di Paolo Giordano e La casa del mago di Emanuele Trevi. In questi romanzi il protagonista sembra trovarsi in un limbo, una condizione di apatia e incertezza esistenziale, e spesso il finale del libro coincide con l’uscita da questo stato di stasi tramite una rivelazione illuminante, una sorta di epifania. Ritrovi anche tu questa linea narrativa comune? Mi chiedo se questo possa dirci qualcosa della contemporaneità…
Riconosco la parentela con le inquietudini di alcuni personaggi. In particolare io e Paolo Giordano siamo quasi coetanei e credo che ci leghino interrogativi comuni. Siamo rappresentazione di una generazione che sperimenta le stesse domande e le stesse ansie, persino una forma di ipersensibilità che poi diventa quasi paranoia. Di conseguenza i personaggi che noi raccontiamo restituiscono una forma di “polverizzazione delle certezze”. Quando è stato pubblicato Tasmania io ero preoccupato perché stavo già scrivendo il mio libro e temevo che le tematiche fossero troppo simili; poi, per fortuna, ho scoperto che i libri sono molto diversi. Giordano, ad esempio, si focalizza più sul tema del nucleare. Però penso che la parentela anche mancata tra le narrazioni ci restituisca, appunto, la temperatura emotiva del presente. Soprattutto restituisce lo stato d’animo dominante del maschio bianco occidentale che sente invecchiare il mondo, più ancora che sé stesso, e legge questo mondo come se tutti gli elementi di stabilità fossero resi profondamente instabili.
- Il paratesto di Romanzo senza umani svolge una funzione fondamentale, non trascurabile. C’è il quadro di Bruegel il Vecchio raffigurato in copertina, Cacciatori nella neve (1565), che richiama la glaciazione nel Cinquecento, e poi la scritta sul frontespizio che ribadisce “Questo romanzo non è un prodotto dell’intelligenza artificiale”. È già una chiave di interpretazione del libro?
Ecco, l’idea del timbro mi è venuta in mente più tardi rispetto al titolo, però in effetti rientra in una dialettica anche pericolosamente fuorviante, perché alcuni leggendo il titolo pensano che si tratti di un romanzo sull’intelligenza artificiale o sul non umano. E il libro non è esattamente questo. In realtà la scritta sul frontespizio è una sorta di difesa della scrittura, che qualcuno ha colto come tradizionalista o conservatrice e vorrei approfittarne per smentirlo una volta per tutte: io non ho nessun tipo di riserva o dubbio sull’intelligenza artificiale o sullo sviluppo delle tecnologie. Non voglio fare del moralismo apocalittico, però oggi bisogna porsi la domanda.
Questo libro è il primo con questo timbro, ma io non escludo che si diffonderà in futuro per rilevare la differenza tra ciò che è prodotto dall’intelligenza umana e ciò che è prodotto dall’intelligenza non umana. Non escludo che i prodotti dell’intelligenza artificiale possano essere migliori, ottimi, persino superlativi; ma quello che per me significa la letteratura è proprio la “macchia umana”, l’imprecisione, l’imperfezione, l’ombra.
- Invece a proposito del quadro di Bruegel? La scelta di metterlo in copertina è molto indicata. È come se anche il quadro contenesse in sé una storia.
Questa visione dell’inverno di Bruegel mi è venuta subito agli occhi e ho chiesto a Feltrinelli di elaborarla in una chiave contemporanea. Credevo che ci dovesse essere sulla copertina una percezione dell’umano più o meno vicina all’epoca da cui inizio la narrazione. Di recente sono tornato a vederlo al Kunsthistorisches di Vienna proprio per averlo di nuovo davanti agli occhi nei suoi dettagli, perché è davvero come se fosse una fotografia pittorica dell’epoca della glaciazione. E in questo il quadro di Bruegel ha anche qualcosa di commovente, ogni volta che tu lo vedi scopri un particolare che prima ti era sfuggito e che ha un’impressionante forza narrativa. Ogni frammento del quadro, a osservare bene, è una storia.
- Un libro che hai recentemente pubblicato per Rizzoli si intitola Trovati un lavoro e poi fai lo scrittore. *Il consiglio che non ho seguito, che richiama il saggio consiglio di una nonna che diligentemente non è stato ascoltato dal nipote. Per fortuna, diremmo ora. Come vedi il rapporto tra i libri e la realtà di oggi in continuo mutamento? Cosa consiglieresti a un giovane scrittore?
Link affiliato
Secondo me è una domanda difficilissima e allo stesso tempo semplice, perché inevitabile. Io credo che ogni scrittore dovrebbe chiedersi cosa sta facendo rispetto al suo tempo, qual è lo spazio di manovra e, soprattutto, di relazione con gli altri.
Io penso che occorra una consapevolezza che spesso ti mette anche di fronte a dei limiti in quello che fai. Secondo me oggi un certo tipo di letteratura, quella che investe sul linguaggio, sullo stile, sulla trama, è davvero uno spazio minoritario rispetto a narrazioni dominanti. Ormai è sempre più evidente.
Penso che oggi gli scrittori che vogliono lavorare sul letterario devono puntare soprattutto sulla specificità di un’esperienza. Devi dare ai lettori un’esperienza singolare che possono sperimentare solo attraverso il tuo libro. Per questo io preferisco anche un commento negativo sul mio romanzo all’indifferenza, perché significa che ha smosso qualcosa nel lettore e che chi lo ha letto non lo trova assimilabile a tutto il resto.
“Alternatività” e “differenza” dell’esperienza fanno tutto quello che può significare il gesto di scrivere e che la narrativa oggi può dare.
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Paolo Di Paolo: “La memoria e la sfida del presente in Romanzo senza umani”
Naviga per parole chiave
Approfondimenti su libri... e non solo Narrativa Italiana Ti presento i miei... libri News Libri Paolo Di Paolo Feltrinelli
Bella intervista, lui è bravo e le domande azzeccate.
Una volta, un’unica volta, fu lui ad intervistare me.