L’hanno definito un “libro sul futuro”, ma è un libro sul presente. Perché Tasmania di Paolo Giordano (Einaudi, 2022) è un romanzo in cui c’è così tanto di noi, della nostra aggrovigliata umanità, di questo tempo inquieto, sospeso, in continua ebollizione, un presente che già sfugge incomprensibile nel domani, magmatico come la lava vulcanica che cova sotto la cenere.
È difficile scrivere un libro su ciò che accade nel momento in cui accade, ed è la ragione per cui le nostre librerie spesso pullulano di narrazioni declinate o coniugate al passato: pagine zeppe di tempi verbali all’imperfetto e al passato remoto in cui tutto viene analizzato attraverso una lente chiarificatrice e retrospettiva. Ciò che ci scorre ogni giorno sotto gli occhi invece appare difficile da catalogare, da classificare, da fissare in un’analisi più razionale e approfondita. Il presente tu lo racconti e subito muta, per cui si ha la sensazione di ingaggiare una battaglia fallimentare, di essere sprovvisti degli strumenti atti a comprendere, a capire.
Nelle pagine di Tasmania Paolo Giordano tenta un corpo a corpo con il nostro presente sfuggente, inquieto, a tratti apocalittico, cimentandosi nel tentativo (titanico) di dargli una forma attraverso la scrittura. Ne risulta una narrazione simile a un flusso di coscienza, fluviale e travolgente, che inevitabilmente ingloba il lettore al suo interno senza lasciargli scampo.
Tutti noi possiamo riconoscerci in questa storia e sembra un paradosso: perché a ben vedere Tasmania narra in prima persona una vicenda molto intima e privata, la crisi di identità e il dramma personale di un uomo che cerca di scrivere un libro sulla bomba atomica e l’intero romanzo è il racconto di questo tentativo che riflette lo spettro di una paternità mancata. Eppure l’arte imita la vita che scorre e lo fa così bene che, nelle coordinate entro cui si muove la scrittura di Giordano, riconosciamo un caos in cui tutti siamo immersi, o meglio, invischiati.
La storia si conclude nel gennaio del 2020, appena prima della pandemia di Coronavirus che avrebbe travolto il mondo intero; dunque non la racconta, si limita a prefigurarla oscuramente tramite una visione che ricorda le profezie degli antichi aruspici, ma è come se, in parte, la narrasse.
Se ripenso oggi alla fine del 2019 mi viene in mente un senso di stanca inevitabilità, come se la disillusione avesse ormai impregnato a fondo i tessuti cerebrali di ognuno.
Il fatto più sorprendente è che il libro di Giordano non parla neanche dell’invasione dell’Ucraina da parte di Putin e dell’attuale minaccia nucleare; eppure è come se lo facesse. Ogni vibrazione che percorre il nostro tempo è racchiusa nelle pagine, dolorosamente inquiete, di Tasmania un libro che porta il nome di un luogo esotico, a prefigurare un’ipotetica oasi salvezza, un rifugio dalle minacce dell’umano.
Oggi 6 agosto, nell’ottantesimo anniversario dell’atomica su Hiroshima, è impossibile non pensare alle pagine finali del libro, in particolare al capitolo intitolato Radiazioni, in cui Paolo Giordano dedica un toccante ricordo alle vittime dell’atomica:
In linea d’aria l’epicentro di Little Boy si trova a circa un chilometro, perciò siamo all’interno del raggio di distruzione totale. Il 6 agosto di settantasette anni fa la porzione di Hiroshima che contempliamo da qui venne trasformata all’istante in un rogo piatto di macerie. E di tutto ciò che vediamo ora, con l’eccezione delle colline, non esisteva nulla.
Tasmania è un romanzo che si legge con un senso costante di sgomento e, a tratti, di sopraffazione; ma è un libro che deve essere letto perché non si dimentica e continua a tradurre in parole gli istanti che viviamo, attimo dopo attimo, anche a lettura ormai conclusa.
L’ultimo romanzo di Paolo Giordano non somiglia a niente di già scritto; è una narrazione atomica (e anatomica) del nostro presente.
Perché è importante leggere “Tasmania” di Paolo Giordano
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Quindi, direte voi, in definitiva di cosa parla Tasmania? Partiamo dal presupposto che è un libro incredibile perché riesce a tradurre in parole la schizofrenia della contemporaneità.
In queste pagine, che si muovono in bilico tra romanzo, saggio e memoir, è concentrata un’immensa varietà di temi: la bomba atomica, il cambiamento climatico, la precarietà lavorativa ed esistenziale, la questione di genere, l’identità fluida. Tutto viene trattato con una sincerità disarmante attraverso gli occhi e la voce di un protagonista molto umano - che si chiama Paolo, come lo scrittore - e sembra avere una spiccata propensione per l’autosabotaggio.
Per quanto tempo ancora avrei resistito come scrittore raccontando solo di ambizioni e di esperienze mancate? Per poter scrivere non bisognava prima di tutto, forsennatamente, vivere?
La storia parte dal racconto di una paternità mancata; il protagonista vorrebbe diventare padre ma scopre che la compagna, Lorenza, ha deciso di rinunciare alla fecondazione assistita e proprio da qui - da un’orfanità all’incontrario, che si fa metafora di una condizione psicologica di sterilità molto contemporanea - prende le mosse una pluralità di voci, una miriade di storie unite da un filo conduttore comune: la crisi, appunto.
L’impossibilità di diventare padre lacera ogni promessa di futuro, d’improvviso spalanca la prospettiva di un vuoto abissale. In un mondo in cui il futuro è negato - e a ben vedere è quel che oggi sta succedendo, nonostante i nostri urlati e partecipati Friday For Future - il presente diventa un terreno minaccioso, instabile, destinato a franarci sotto i piedi.
La struttura del romanzo di Giordano ricorda Resoconto (Einaudi, 2018) dell’americana Rachel Cusk, definito a suo tempo come “un libro capace di allargare i confini della narrativa”. Analogamente al testo ibrido di Cusk, Tasmania è una narrazione stratificata, a collage, composta da un insieme di racconti che si uniscono sino a formare un puzzle. In ogni pagina si avverte una sensazione di precarietà pervasiva, cui si accompagna un senso di attesa irrisolto. Un’autobiografia non convenzionale dunque, in cui sembra che non succeda nulla, ma in verità accade tutto. C’è un uomo che tenta di scrivere un romanzo sulla bomba atomica ma non lo scrive, o comunque lo scrive a metà, ce ne consegna degli stralci, degli assaggi; attorno a lui intanto si muovono vecchie e nuove conoscenze, tutte a modo loro un po’ perse e sperdute sulla strada della vita, mentre accumulano piccole conquiste e grandi delusioni.
Il tema dell’incomunicabilità ritorna come una costante e sembra essere lo spettro demoniaco del nostro mondo iperconnesso in cui siamo tutti perennemente collegati l’uno con l’altro, eppure non riusciamo più davvero a capirci.
L’infelicità è una vibrazione di fondo, costante, ma infine si dissolve grazie a una stretta di mano. È la capacità di “non abbandonarsi” ciò che tiene legate le persone e rende meno spaventosa l’assenza di futuro e meno friabile il presente su cui ci muoviamo incerti.
Paolo Giordano e la narrazione dell’atomica
Il Giappone, in particolare le città di Hiroshima e Nagasaki, assume un ruolo centrale in Tasmania. Perché se la località africana evocata nel titolo richiama un futuro presagio di salvezza (la Tasmania, dice uno dei personaggi, è il luogo ideale dove rifugiarsi in caso di apocalisse), sono le città giapponesi devastate dall’atomica a farsi simbolo concreto di sopravvivenza, di memoria e, infine, di pace.
Il libro, dopo aver mosso il suo protagonista come una pedina impazzita per le strade del mondo - da Roma a Torino, da Guadalupa a Parigi - trova il suo punto di chiusura (e congiuntura) proprio in terra nipponica. Qui, mentre il fisico-scrittore assiste alla cerimonia commemorativa delle vittime della bomba atomica, avviene una rivelazione epifanica che sembra riconciliare le molteplici crisi narrate - e in parte scongiurate - nel corso della storia.
Guardando Terumi Tanaka, uno degli hibakusha (così sono chiamati in Giappone i sopravvissuti al bombardamento atomico, Ndr) il narratore osserva:
Si possono piangere nella storia di un solo bambino le sorti di tutta l’umanità, e a me è successo con lui.
Infine il protagonista, che è uno scrittore ma anche uno scienziato, riflette su una frase pronunciata da Tsukie Tagami, una sopravvissuta di seconda generazione: “Quello che rimane sono le radiazioni”.
E mi sembra vero, perché i morti stessi sono radiazioni. Il corpo umano è formato da miliardi e miliardi di atomi. (...) una volta polverizzati i corpi gli atomi continuano ad esistere e quelli instabili a emettere radiazioni (...) verso lo spazio aperto per migliaia e migliaia di anni.
Il narratore afferma quindi poeticamente di poter sentire in quel luogo il “calore sprigionato dai morti”. Ed è un messaggio prezioso da leggere oggi, 6 agosto 2023, ottant’anni dopo il più terribile atto di sterminio cosciente compiuto dall’uomo contro l’uomo. Il culto dei morti in queste righe viene inteso come un culto della vita, quindi qualcosa di cui non avere paura. “E se le radiazioni conservassero una memoria di quel che è stato?” si domanda Giordano dopo aver scrutato a fondo nel cuore oscuro dell’apocalissi. E proprio in questa parola, “memoria”, è custodito il significato di cura.
La narrazione della bomba atomica - dal Trinity Test di Oppenheimer nel deserto di Jornada del Muerto alle esplosioni di Hiroshima e Nagasaki - scorre sottotraccia tra le varie storie che muovono la trama di Tasmania, eppure è la più importante per comprendere il tempo in cui viviamo. Un “tempo senza tempo”, come ci ammonisce l’orologio dell’Apocalisse (il Doomsday Clock), che oggi segna 90 secondi dalla fine. Perché tutti noi, umani del XXI secolo siamo, in qualche modo, “figli dell’atomica”: quell’esplosione folle ha dato origine al mondo contemporaneo, chiudendo l’era bellica delle guerre mondiali, e ora continua a riverberarsi sul nostro presente come una minaccia bruciante.
Per raccontare il caos bisogna partire dal caos; e Paolo Giordano, da fisico, l’ha capito, per questo motivo ha scritto un romanzo atomico nel tentativo - audace, ma ben riuscito - di dare forma al presente.
“Tasmania” o come ripartire dall’umano
L’immagine di Paolo Giordano nell’idea comune sarà sempre legata a quella del rampante ventiseienne, fresco di vittoria allo Strega, una specie di enfant prodige, il primo esordiente a vincere il più prestigioso premio letterario nazionale. Ma negli anni Giordano ha dimostrato di avere la stoffa dello scrittore-pensatore e che il suo strabiliante successo editoriale non era semplicemente dovuto a un “caso fortuito”. La solitudine dei numeri primi (Mondadori, 2008), il suo potentissimo e acclamato esordio, in fondo esplorava sempre gli stessi temi oscuri, solo da un’altra prospettiva.
Ricordo un giovane Paolo Giordano che, invitato in prima serata a Che tempo che fa, spiegava a Fabio Fazio:
Nella letteratura io cerco una risposta al dolore, o forse una spiegazione.
Il suo ultimo libro, Tasmania, si chiude proprio con una frase analoga, che ci invita a ripartire dall’umano:
Scrivo di ogni cosa che mi ha fatto piangere.
E, sempre se è lecito da partire dalla conclusione di un libro per promuoverne la lettura, questa è anche una delle ragioni fondamentali per cui deve essere letto.
Recensione del libro
Tasmania
di Paolo Giordano
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Tasmania” di Paolo Giordano e la narrazione atomica del presente
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