L’ultimo libro di Paolo Giordano, Tasmania (Einaudi, 2022), nel novembre 2023 è stato insignito del Prix André-Malraux quale “migliore fiction impegnata al servizio della condizione umana”. Un omaggio meritato per un grande libro che vince la sfida di dare forma narrativa al nostro presente inquieto, a tratti apocalittico, un tempo perennemente in fuga caratterizzato da una duplice crisi (climatica e politica) che, di fatto, riflette un fenomeno più profondo: la fragilità dell’uomo contemporaneo.
Quando Paolo Giordano vinse il Premio Strega, nel 2008, io avevo quindici anni. Lessi La solitudine dei numeri primi in un giorno, senza riuscire a staccare gli occhi dalle pagine: la protagonista femminile si chiamava Alice, come me, e con me non aveva in comune soltanto il nome.
Quei capitoli davano per la prima volta voce a un dolore esistenziale - ma anche a una forma di disagio propriamente “adolescenziale” - che di rado era stato raccontato con tanta empatia in un libro. È stato il romanzo di formazione di un’intera generazione di adolescenti di cui facevo parte anche io; un libro che trattava, tra le tante tematiche intrecciate, il delicato fenomeno del bullismo, spalancando gli occhi di adulti e insegnanti su un tema trascurato o ridotto unicamente agli episodi “visibili” e “violenti”. Quel libro è stato un clamoroso bestseller - uno dei maggiori casi editoriali italiani degli ultimi anni - ma è stato anche una forza, una risorsa, uno specchio in cui tanti ragazzi e adulti si sono riflessi e riscoperti prendendo atto di una narrazione nuova, non edulcorata e veritiera, dell’adolescenza.
Quindici anni dopo, con Tasmania, Giordano torna a narrare di un trauma che da individuale diventa collettivo e condiviso, un racconto in cui possiamo riconoscerci nonostante le nostre differenze.
Una narrazione “atomica” del nostro presente, un tempo in continuo mutamento nel quale tutti, ora, ci muoviamo incerti.
Ne ho parlato con Paolo Giordano in questa intervista, in cui abbiamo toccato vari temi di stretta attualità: dalla pandemia al nucleare, sino all’identità di genere.
- Paolo, mi aveva molto colpito una sua intervista rilasciata a Fabio Fazio parecchi anni fa, forse nel 2008-2009, dopo la vittoria del Premio Strega. Disse che nella letteratura cercava “una risposta al dolore”. Ora il suo ultimo libro, Tasmania, si conclude con una frase analoga: “Scrivo di tutto ciò che mi ha fatto piangere”. Cos’è la letteratura per Paolo Giordano?
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Credo che una risposta al dolore sia quello che in fondo tutti noi ricerchiamo. Allo stesso tempo credo che oggi l’atto di leggere i libri sia molto faticoso, perché abbiamo vite molto dinamiche, milioni di forme di intrattenimento più immediate della lettura.
La letteratura invece richiede un certo livello di impegno, di sforzo, di dedizione. Penso che, innanzitutto come lettori, nessuno di noi farebbe questo sforzo se ciò che cerca in quell’azione non avesse un valore alto, profondo. Credo che, prima di tutto come lettori, cerchiamo sempre delle risposte alla nostra sofferenza, alle diverse forme di sofferenza che si attraversano crescendo e anche, forse, a una sofferenza più universale, innominabile.
Quello che penso di aver aggiunto negli anni rispetto a quell’intervista è che ho scoperto che il romanzo, oltre a essere una risposta al dolore, può anche essere uno strumento molto interessante per conoscere il mondo.
- Nel numero da lei curato della rivista Sotto il vulcano, edita da Feltrinelli, scrive: “Ho iniziato a pensare a me e a tutte le persone intorno a me, come dei sopravvissuti”. Secondo lei oggi, nel 2023, siamo questo: dei “sopravvissuti”?
Lo siamo in effetti, anche se io non avevo mai pensato a me stesso con questa definizione, di solito erano sempre altri. Erano coloro che erano sopravvissuti a catastrofi ambientali o a guerre, comunque sempre lontane da noi; potevano essere sopravvissuti ad attentati o a malattie gravi. Oppure i sopravvissuti “storici” all’Olocausto, alle bombe atomiche; ma era, appunto, una definizione che sentivo distante da me, dal mio mondo.
Invece in questo senso la pandemia, essendo stata una minaccia globale che ci ha travolto tutti contemporaneamente e dalla quale siamo usciti un po’ rotti, ci ha reso tutti dei “sopravvissuti”.
Perché c’è quel livello di comunanza legato a questo sentimento che richiama anche la parte finale del libro: leggendo bene le ultime righe si capisce che non si tratta solo di un dolore individuale, ma “un piangere insieme”.
- Sempre in quell’articolo ha scritto che la pandemia l’ha reso “svergognato”. Forse serve proprio questa mancanza di vergogna per scrivere. È stata quindi la premessa necessaria per scrivere questo libro in cui si è messo a nudo?
È la vera difficoltà ogni volta, no? Comunque scrivendo un libro diamo un’idea di noi al mondo, implicita o esplicita che sia. Un libro è sempre una forma di esposizione di sé stessi. La cosa difficile è riuscire a farlo con grande verità, con grande onestà, mostrando soprattutto le parti poco accettabili di sé stessi che poi in fondo sono le più interessanti e anche quelle che dicono di più a livello politico. Non è facile, la scrittura per me in questo è una grande lotta contro il senso della vergogna; non direi del “pudore”, proprio della vergogna, perché il pudore ha anche una sua accezione dignitosa. Invece la possibilità di addentrarsi in aspetti di te stesso, della tua vita, che sono problematici, quello è davvero uno sforzo interessante.
- Si sente più scrittore o più scienziato?
Non è neanche più un fatto di sentirsi, ora sono a tutti gli effetti uno “scrittore”, ormai sono tanti anni. La scienza continua a interessarmi, continuo a dedicare del tempo a leggere di scienza. Però, ecco, se mi danno dello scienziato sento che c’è un po’ di appropriazione indebita, perché in realtà non mi occupo più direttamente di quello. Comunque inizio a percepire anche una forma di coabitabilità tra scienza e letteratura. Secondo me sono due mondi molto complementari, anche contemporanei come modi di percepire le cose.
- Tasmania narra il periodo immediatamente precedente alla pandemia, si conclude infatti a gennaio 2020. Crede che non abbiamo ancora trovato le parole adeguate per narrare il trauma della pandemia?
Quello era il punto più recente a cui potevo arrivare. Penso che ci sia bisogno ancora di tempo di sedimentazione, almeno per me, prima di narrarne.
Si potrebbe parlare della pandemia in tanti modi e sarebbe giusto anche parlarne di più, ma un romanzo richiede un tempo di elaborazione diverso, molto più profondo. In quel momento mi interessava capire come eravamo quando siamo entrati nella pandemia, solo adesso sto cominciando a ragionare su come si potrebbe mai - forse - raccontarla.
- Quanto si sente cambiato, come uomo e come scrittore, dai tempi de La solitudine dei numeri primi?
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Sarebbe terrificante se dopo quasi vent’anni non ci fosse stata un’evoluzione. Adesso di anni ne ho quaranta, sono proprio due fasi di vita diverse. Ecco, se devo mettermi esattamente a cercare di capire “come sono cambiato” faccio più fatica. Però mi rendo conto che quando ho scritto La solitudine dei numeri primi ero ancora molto voltato verso il mondo della prima fase della vita, dell’adolescenza, della post-adolescenza. Adesso c’è un’altra generazione in quella fase.
- In Tasmania il tema della paternità riveste un ruolo centrale. Oggi si parla molto di maternità, ma poco di questo sentimento declinato al maschile: lei è stato uno dei primi a parlarne come di una mancanza. Ha voluto infrangere un tabù?
Forse non è proprio un tabù, forse un tabù è una parola troppo forte; però in effetti non è un desiderio che sia considerato troppo presentabile da parte di un uomo. Mentre sulla maternità vengono fatti addirittura dei processi alle intenzioni quando una donna decide, tra l’altro molto legittimamente, di non attraversare quell’esperienza. Nel caso maschile invece è ancora come se la paternità fosse una scelta accidentale. In realtà è solo un retaggio culturale antico, perché non è così.
- Un altro tabù toccato nel libro è il fenomeno Metoo visto dal punto di vista rovesciato, cioè maschile. Quando una studentessa gli fa notare il nome da nubile di Marie Curie, il protagonista si sente, per un attimo, smarrito. Scrive di aver provato un “disagio inedito”. Io credo che queste pagine diano voce a una sorta di fragilità maschile che non siamo abituati a vedere, non è così?
Gli uomini oggi si trovano al centro di una battaglia che non hanno voluto?
Da questo punto di vista è in atto veramente una crisi, penso che il maschile su di sé non abbia mai riflettuto abbastanza, mentre il femminismo ha una lunga tradizione di sentiero sul suo ruolo nel mondo, sulle dinamiche di potere e di identità. Ecco, gli uomini hanno vissuto di rendita in questo, non hanno mai dovuto pensare particolarmente alla loro posizione nel mondo.
Quindi in realtà io sono molto contento che questo oggi avvenga, non ho mai avuto grande simpatia per un certo modo di pensare “maschile”. Nel libro mi diverto anche un po’ a prendere in giro una generazione arroccata sulle proprie posizioni granitiche, che non si mette neanche in discussione. È una cosa che tra l’altro succede proprio anche in queste ore.
- In Tasmania si tratta anche il tema, oggi molto attuale, dell’Olocausto nucleare. Moravia in Lettera da Hiroshima scriveva che “La guerra nucleare è una guerra annunciata, perché non è una guerra, ma la morte della specie”. Lei invece nel finale parla di atomi che continuano a esistere una volta polverizzati i corpi, dice che i morti continuano a vivere in forma di radiazioni come una memoria.
È davvero così?
Non avevo pensato a questo paragone, ma mi piace, anzi, credo che lo riutilizzerò anche. Diciamo che io cercavo un modo per rovesciare questa idea di morte che avevamo attraversato e che tuttora stiamo attraversando sotto altre forme. Avevo proprio bisogno di trovare un’immagine per fare qualcosa di tutta questa morte. Prima parlavamo di letteratura e sofferenza, ecco io penso che un certo tipo di scrittura sia davvero un tentativo di farsene qualcosa della morte. Quindi ho avuto questa immagine delle radiazioni, ma non immaginavo che il dibattito sull’atomica potesse diventare così contemporaneo e, anzi, quando è successo ero circa a metà del libro e mi sono domandato se valesse la pena continuare.
L’Era Atomica non è mai finita, noi siamo completamente nell’Era Atomica, solo che a un certo punto è diventato una specie di pensiero di fondo che abbiamo messo da parte. Di fatto siamo una generazione nata e cresciuta nella possibilità della distruzione e noi viviamo dentro questa consapevolezza. Ma nel libro volevo fare il passo successivo: forse possiamo viverci dentro con, non so, un certo spirito romantico?
- Nelle fila della narrazione si intreccia anche il tema dell’identità di genere. Di recente si parla molto di “sessualità fluida”, un vocabolo entrato nel lessico comune, sempre più legittimato, soprattutto dai giovani. Nel romanzo rompe anche questo tabù. Quindi volevo chiederle, lei cosa ne pensa?
Io penso che ogni consapevolezza è benvenuta. Perché la consapevolezza è la capacità acquisita di riconoscere delle cose che già esistono. Quindi è importante limitare la solitudine di alcune persone, limitare soprattutto il senso di marginalità. Per questo credo che anche ogni avanzamento del linguaggio sia un bene; oggi c’è questa grande spaccatura, chi pensa che abbiamo imbrigliato il linguaggio nel “politicamente corretto” e chi invece porta avanti l’idea di, appunto, di maggiore consapevolezza. Questa prospettiva mi interessa perché oggi in Italia non è che veda questa grande libertà di opinioni e di espressione, ma anzi, sento dire ancora molte castronerie che ora credo debbano essere superate.
Penso che sia importante che sempre più persone incontrino le cose nuove che compaiono nel linguaggio, perché vuol dire avere maggiore consapevolezza della realtà.
La mia preoccupazione è che a volte pensiamo che questa presa di coscienza stia avvenendo su larga scala, invece avviene solo in percentuali ridotte.
- Però crede che la letteratura possa fare qualcosa in questo senso?
Vorrei tanto dire di sì, ma penso che sia una risposta un po’ velleitaria.
Credo che in questo senso possa fare molto di più la politica.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Paolo Giordano: “La pandemia, il nucleare e la mia Tasmania”
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