Il mondo di Mario
- Autore: Fabrizio Pellegrino
- Genere: Psicologia
- Categoria: Narrativa Italiana
- Anno di pubblicazione: 2018
“Volevo dargli una possibilità permettendogli di dire la sua”, è così che Sabrina Ferrero, l’editore Nerosubianco di Cuneo, spiega il motivo della fiducia riconosciuta a Fabrizio Pellegrino con la pubblicazione dei suoi lavori dopo la vicenda penale che lo ha interessato. Prima una raccolta di racconti, ora un romanzo, “Il mondo di Mario”, pubblicato dalla casa editrice cuneese a ottobre 2018 (146 pagine 12 euro).
Sarebbe ipocrita ignorare perché questo libro rappresenta un’occasione “di rifarsi” concessa allo scrittore piemontese. Oggi poco meno che sessantenne, docente di lettere, animatore culturale per decenni, paladino del recupero dei beni culturali, fondatore della nota associazione Marcovaldo, Pellegrino è finito nel 2014 al centro di un caso che ha creato scalpore, data la stima incondizionata riconosciutagli.
La scrittura è perciò una chance per dimostrare di avere compreso gli errori, anche e per primo a se stesso. È diventata una zattera alla quale aggrapparsi per tornare a riva profondamente cambiati dall’esperienza e da una piena consapevolezza.
Dopo la resa dei conti, è un uomo che deve ricominciare a vivere, come ha dichiarato nella presentazione dell’antologia di racconti “Il camion giallo” (Nerosubianco 2017). Già quelli risultavano fortemente autobiografici, il romanzo lo è ancora di più. Come non vedere nel giovane insegnante un alter ego del Fabrizio di Caraglio?
Due i coprotagonisti, il docente Davide e Mario, un ragazzo della profonda provincia contadina. Si parla di omosessualità, in un mondo ristretto, agreste, arcaico, vissuta come se fosse un retaggio ancestrale, una fatalità - solo sesso niente sentimento - una di quelle cose quasi inevitabili, “che esistono, ma di cui non si deve parlare”.
Agli occhi di Pellegrino, quello rurale è anche un mondo terribilmente chiuso. Da bambino ne ha provato la durezza: a 13 anni avvertiva la diversità rispetto ai compagni di scuola che appartenevano a famiglie di coltivatori e allevatori. Non perdevano occasione per fargli pesare la differenza con loro, che al suo confronto sembravano ancora più “forti, sanguigni, spavaldi”. Viveva la diversità di classe come un disvalore e riconosce che tutta la sua vita è stata condizionata da quel senso d’inferiorità e di esclusione, dal desiderio di far parte di quel mondo.
Inizialmente, il professore del libro prova sulla sua pelle la non accettazione in quel microcosmo di valori antichi e rudi. A differenza dell’autore, però, l’ambiente gli si dischiude in parte e questo incontro alimenta il romanzo, che procede per tratti leggeri, quasi assecondando le pennellate tenui dell’acquerello di Adriana Giorgis in copertina.
C’è una definizione centrata del mondo contadino che Fabrizio cita nella presentazione, ma dalla quale prende le distanze. In una lettera a Gino Girolimoni, nel 1977, il teologo Sergio Quinzio definiva:
certamente nobile l’antica civiltà dei contadini, degni di rispetto i suoi valori, dotato di veneranda saggezza qualcuno dei suoi ultimi rappresentanti.
Ma la società contadina, osservava, “è cupa, arida, chiusa, taciturna, rassegnata o ciecamente violenta”. Si nutre di penuria e sacrifici, “è impastata con la morte”.
È un parere che tanti sottoscriverebbero ad occhi chiusi, tuttavia stride con la visione al docente piemontese di un eden arcaico colmo di valori inarrivabili. Ed è così che appare al suo collega che vive nelle pagine del romanzo. Entrambi sono idealmente attratti, ma si vedono fisicamente respinti dai soggetti attivi in quel mondo bucolico, che detto tra noi non c’è assolutamente più. Si è estinto anche nel Sud già prima del secondo millennio, ha ceduto alle ciminiere delle fabbriche - che offrono un lavoro meno ingrato - è stato cancellato dalla meccanizzazione nei campi, che ha trasformato le aziende agricole in imprese, mentre i braccianti sono stati sostituiti dalla manodopera straniera sottopagata.
Insomma, questo fascino irresistibile e quest’aspirazione a stare con i figli duri e puri dell’antica civiltà dei campi stenta a contagiare il lettore “cittadino”. Avrà anche le sue attrattive la provincia rurale piemontese dov’è ambientata la storia di Mario e di Davide, ma scalda poco l’aspirazione di farsi “contadini”, visto che poi quella realtà non esiste.
Fabrizio e il suo Davide si direbbero affetti da una forma di sindrome di Stoccolma. Provano attrazione per chi fa loro del male. Infatti, anche i ragazzini sono capaci di imprimere ferite psicologiche dolorosissime. Si parla di “campagna” anche quando si parla di guerra. “Campo” è anche quello di battaglia. Le spine e i rovi pungono, non fanno carezze. Antico può risultare solo un miraggio ed essere solo vecchio, superato, battuto e non dalla modernità: semplicemente del tempo che passa.
Il mondo di Mario
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