La poesia di Montale che non ti aspetti. Si intitola Il pirla ed è tratta da Diario del ’71, appartiene quindi alla produzione poetica montaliana risalente al periodo immediatamente successivo alla morte della moglie Drusilla, detta “Mosca”.
L’insolita parola che dà il titolo alla poesia “Pirla” è un termine dialettale diffuso in area lombarda e - questo va detto subito - non è affatto un complimento: viene a designare una persona stupida, un allocco, un babbeo, uno sprovveduto. Curiosamente viene usata sempre al maschile e mai declinata al femminile: “sei un pirla”, la versione del gentil sesso non è contemplata e la schwa ancora non ha intaccato il dialetto.
Deriva dal verbo di origine milanese “pirlare” o “pirillare” che indica l’atto di chi gira inutilmente su sé stesso come una trottola. Le prime attestazioni dell’uso della parola, che Montale nei versi definisce “gergale” e non traduce, risalgono al 1920.
Insomma, chi osava dare al premio Nobel Montale del “pirla”? L’unica persona che poteva permetterselo naturalmente, ovvero la moglie.
Del resto anche lei, Drusilla, aveva un soprannome, come riporta il poeta in Xenia:
Caro piccolo insetto/
che chiamavano mosca/non so perché.
In realtà la ragione del soprannome dato a Drusilla, Montale la conosceva bene, come ribadisce in Ho sceso dandoti il braccio: era molto miope e indossava degli occhiali spessi, come ci indica il riferimento alle “pupille tanto offuscate”. Ma Drusilla aveva anche l’abitudine di punzecchiare, provocare, caratteristica che la rendeva fastidiosa e talvolta irritante come una mosca che continuamente ti ronza attorno. In seguito il poeta cercò di dare una motivazione letteraria al soprannome, attribuendone l’origine al nomignolo “hellish fly” pronunciato da Stanislaus Joyce, il fratello di James Joyce.
Proprio dalla Mosca dunque veniva quella parola sfottò “pirla” che il poeta dichiara di portarsi addosso. Non è chiaro, tuttavia quando la donna l’abbia pronunciata: qui la critica si divide. Alcuni intuiscono in quel “prima di chiudere gli occhi” il momento della morte di Drusilla, scomparsa nel 1963; mentre altri, tra i quali figura John Butcher, ravvisano in quella parola un’abitudine reiterata, uno scherzo quotidiano che si protraeva nel tempo. Probabile quindi che “Pirla” fosse il nomignolo domestico, scherzoso affibbiato a Montale dalla consorte.
Ma vediamo più nel dettaglio testo e analisi della poesia più inaspettata di Montale.
“Il Pirla” di Eugenio Montale: testo
Prima di chiudere gli occhi mi hai detto pirla
una parola gergale
non traducibile
Da allora
me la porto addosso
come un marchio che resiste alla pomice
Ci sono anche altri pirla nel mondo
ma come riconoscerli?
I pirla non sanno di esserlo
Se pure ne fossero informati
tenterebbero di scollarsi
con le unghie
quello stimma.
“Il Pirla” di Eugenio Montale: analisi e commento
La poesia appartiene alla fase dell’ultimo montale ed è scritta nello stile che l’autore stesso definiva come "il rovescio del tappeto". Era un linguaggio meno ermetico, di fatto più aderente alla realtà delle cose. In questa nuova lingua montaliana si riverbera l’affetto dato dalla lunga convivenza con la moglie, scomparsa. È una poesia più epigrafica, che privilegia la forma breve.
Persino quella parola gergale - che Montale forse per pudicizia non traduce - assume un significato più profondo, si estende a una riflessione universale che sembra richiamare un celebre aforisma di George Bernard Shaw:
La gente stupida non sa della propria stupidità.
Allo stesso modo Montale sentenzia:“I pirla non sanno di esserlo”. La frase appare come un atto di legittima difesa dal retrogusto socratico: dunque se lui sa di esserlo, non lo è?
La differenza è che lui è affezionato a quella parola, benché la definisca in termini negativi un “marchio”. Quell’espressione gergale conserva un tono affettuoso, familiare, la voce della Mosca, un’ombra non ancora sbiadita della sua presenza nel mondo. Dunque quella parola gergale resiste nella memoria del poeta con la persistenza di un ricordo, più dura e resistente della pietra pomice. Lui si porta addosso la parola “pirla” come un abito o una pena da espiare - chissà in quali circostanze la moglie glielo disse, furono sempre scherzose? Oppure, forse, era la risposta a un tradimento? Quella parola fu anche un atto d’accusa?
È pur vero che quando le persone se ne vanno per sempre ci mancano persino le loro offese, le rammentiamo con rimpianto. La parola “Pirla” per Montale non è una condanna né un’ingiuria: lui accetta di esserlo, si umanizza con un gesto proprio dei grandi, e non tenta di liberarsi con le unghie e con i denti di una definizione inappropriata. Gli ultimi versi, ancora una volta, ribadiscono la profondità di Eugenio Montale, che non ha mai badato alle apparenze o alla superficie delle cose e, soprattutto, aveva compreso che Drusilla, la “Mosca”, era la sola a vedere chiaro benché con le sue pupille tanto offuscate, come ribadisce nella celeberrima Ho sceso dandoti il braccio.
sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.
Ogni sua parola dunque era un verdetto, persino quel “pirla” che improvvisamente ci appare affettuoso, familiare, dolcemente canzonatorio come tutte quelle cose piccole e umane della vita a cui non badiamo per distrazione o disattenzione. Una parola dialettale, dalla forte origine regionale, talvolta può conservare l’impronta di una tradizione e, anche, il suono inconfondibile di una voce.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Il Pirla”, la poesia di Eugenio Montale che non ti aspetti
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