Il punto di partenza di Sciascia: I mafiusi di la Vicaria
La commedia in due atti I mafiusi di la Vicaria (I mafiosi della Vicaria) fu composta sul finire del 1861, in dialetto siciliano, dal maestro elementare Gaspare Mosca e rappresentata per la prima volta, nel 1863, al teatro Sant’Anna di Palermo. Molti ancora i punti oscuri sulla genesi dell’opera che, dimostrando la pericolosità del fenomeno, ha posto in evidenza una sorta di “scuola” del malaffare e della delinquenza palermitana, il cui compito era di indottrinare e preparare le future forze della mafia.
Giuseppe Rizzotto, capocomico e factotum dell’intera compagnia, decise poi di allargare il testo in tre atti con l’aggiunta successiva di un prologo. L’opera sarà così data fino al 1894, anno della sua morte.
Originale, spiritosa e vivace, aveva goduto di un successo clamoroso e duraturo; secondo alcuni storici aveva dato diritto di cittadinanza ai termini "mafia" e "mafioso", anche se non presenti nel testo: in loro vece vengono utilizzate le parole “camorra” e “camorrista”.
Un gruppo di mafiosi i personaggi. Malgrado la loro reclusione nel penitenziario dell’Ucciardone di Palermo (il carcere borbonico della Vicaria venne chiuso nel 1842 e sostituito dall’Ucciardone, per lungo tempo denominato “Vicaria” dai palermitani), essi mantengono la propria gerarchia e le attività malandrine all’interno e all’esterno della prigione.
Ecco un particolare sulle modifiche apportate poi alla commedia. I due autori, che facevano anche gli attori, temendo la reazione delle autorità, dopo le prime rappresentazioni ne modificarono il finale: nella seconda versione Gioacchino Funciazza esce dal carcere e grazie all’influenza benevola del personaggio chiamato "l’Incognito", capitato alla Vicaria tra delinquenti comuni (si è parlato in merito di Francesco Crispi, futuro primo ministro, ma senza alcun possibile indizio), diventa ‘uomo nuovo’ e decide di mettersi a lavorare onestamente.
Dopo tutto, né la mafia né i mafiosi escono male; anzi, manifestano un senso dell’onore e l’ubbidienza alle leggi dello Stato.
I mafiosi di Leonardo Sciascia
La commedia non passa inosservata a Sciascia di cui si occupa in un articolo su "L’Ora" del 6 novembre 1965, in seguito procederà a un’interessante riscrittura creativa, in italiano, intitolata I mafiosi.
Quale il motivo che, nel periodo intercorso tra la stesura de Il giorno della civetta (1961) e A ciascuno il suo (1966), l’ha spinto a riprendere in mano uno scritto risalente al 1863? Era allora un testo abbastanza popolare, spesso messo in scena, e c’è da dire che l’opera venne tradotta in inglese, spagnolo e italiano, nonché in molti dialetti dell’Italia settentrionale e meridionale. Sia la conoscenza diffusa che l’argomento dovettero in lui esercitare un particolare fascino.
La commedia di Sciascia intitolata I mafiosi si presenta divisa in due parti senza atti e senza scene, anche se gli atti di quella originaria sono visibili all’interno del testo.
In Mosca e Rizzotto i fatti si collocano nel 1854, invece nel suo testo le vicende iniziano il 3 aprile 1860, alla vigilia dell’insurrezione palermitana:
"Lo sanno tutti: domani, 4 aprile 1860, a Palermo e in tutto il regno di Sicilia ci sarà la rivoluzione".
Siamo nel periodo immediatamente precedente lo sbarco di Garibaldi in Sicilia. Come a dire che, esistendo una stretta connessione tra mafia e politica, Sciascia ha voluto evidenziare l’aiuto e l’apporto mafioso alla causa unitaria. La sua convinzione è chiara: i mafiosi, che non sono per nulla interessati alla politica unitaria, sostenendo l’azione garibaldina intendono profittare del momento per estendere il loro potere.
Del resto Gioacchino, personaggio di spiccato carisma, tratteggiato prendendo a modello la figura del Don Mariano Arena de Il giorno della civetta, sull’impresa rivoluzionaria ha un’opinione profittatrice:
"Io non metto d’accordo niente, eccellenza; non ammiro nessuno; non mi interessa né chi vince né chi perde. Quello che mi piace della rivoluzione, sono le porte aperte, gli sbirri che vanno a inconigliarsi, il movimento del “levati tu che mi ci metto io” … se poi la rivoluzione non capisce che il comando è il comando...".
Interessante il discorso che egli fa a don Leonardo, nel quale spiega il concetto di “umano”. Pur non rinunciando a essere spietati, non bisogna fare la guerra a tutti; se si vuole sopravvivere, bisogna tenere in considerazione anche le persone istruite. Ed esse non sono soltanto l’uomo di legge, ma anche l’uomo politico e coloro che dall’alto della loro cultura vantano un ampio consenso tra la gente: la mafia insomma deve congiungersi al potere e senza considerare il colore del partito.
Il comando è comando per saziare l’ingordigia; per mantenerlo vale il motto di De Roberto “fatta l’Italia facciamoci gli affari nostri”, affinché tutto in modo gattopardesco rimanga inalterato.
Una mafia, dunque, cosciente dei propri scopi e del proprio ruolo.
Oltre all’aggiunta nel testo di una poesia popolare, il prologo sciasciano ha lo scopo di presentare il personaggio principale dell’intera commedia: l’Incognito, uomo oscuro che conosce il gergo, le regole mafiose e la filosofia dell’ambiguità. Il fulcro dell’intera commedia sta nella seconda parte, che presenta il passaggio della mafia da fenomeno primitivo, di piccolo cabotaggio, del periodo antecedente l’unità italiana a organizzazione ben strutturata di assoluto potere e controllo territoriale, successivamente.
Sciascia sostituisce il finale: quando i mafiosi escono di prigione, si mettono sì a lavorare, ma in modo assai diverso, organizzando la campagna elettorale dell’Incognito in vista delle prime elezioni nel Regno d’Italia con Roma capitale. Siamo così di fronte a una mafia più forte per la corruttibilità degli uomini di Stato e la sua assenza sul territorio. Sciascia punta il dito contro le istituzioni: pur dicendo di combatterla, l’assecondano. Emblematiche difatti le parole dell’Incognito, che sale alla ribalta facendo nel suo comizio l’apologia della mafia come di un’associazione di uomini "coraggiosi e valenti":
"INCOGNITO: […] Mi ha chiamato, costui, mafioso; e va dicendo che io ho portato la battaglia elettorale sul terreno della mafia… Ma qual è, o amici miei, l’autentico significato della parola mafia? Mafia è per me, per voi, eleganza, fierezza, cavalleria, senso dell’onore, superiorità, perfezione… E se mafia è questa, così come l’intendiamo noi, così come l’intende il buon popolo siciliano…
VOCE: E se è quell’altra? Ma si vede la persona che ha lanciato la domanda crollare, colpita, e subito trascinata fuori.
INCOGNITO: Se mafia è questa, e non società per delinquere […] ebbene, amici miei, io vi dico che sono mafioso e sarò fiero di poter portare nel Parlamento dell’Italia unita, libera, grande il soffio vivificante della mafia di questa nostra isola gloriosa…".
Il lavoro di Sciascia venne rappresentato nel 1966 al Teatro Piccolo di Milano e poi al Teatro Stabile di Catania, dove la parte del grande mafioso fu interpretata dal famoso Turi Ferro. Era l’anno in cui nello stesso teatro si rappresentava con grande successo anche Il giorno della civetta.
La commedia non piacque ai critici. Il ribaltamento del finale e del senso complessivo della commedia, nonché certi difetti di costruzione, unitamente all’assenza dell’intreccio e alla perdita del gusto dialettale, suscitarono non poche critiche, che rimproveravano un atteggiamento di noncuranza dei codici teatrali. Ma non c’è dubbio sull’attualità degli argomenti presentati. Penso a come la mafia continui a trovare nell’apparato statale il migliore stimolo al proprio sviluppo, anche grazie al voto di scambio e ai taciti accordi con un sistema che le offre l’esca più favorevole per svilupparsi.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: "I mafiosi": analisi e commento dell’opera teatrale di Sciascia
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