Nella più celebre raccolta pascoliana, Myricae (1891), nella sezione dal titolo L’ultima passeggiata (della quale fa parte anche La via ferrata), troviamo un quadretto di vita agreste molto autunnale.
La poesia di Pascoli ha un titolo singolare, Galline, e si concentra proprio su un momento di umile vita contadina, contrapponendo abbondanza e povertà, gioia e malinconia, morte e vita, nella stagione che più di ogni altra manifesta i segni della caducità.
L’autunno, vero protagonista, viene presentato sin dal primo verso tramite una perifrasi molto efficace ed espressiva:“Al cader delle foglie” che immediatamente immerge il lettore, con subitanea immediatezza, nell’atmosfera crepuscolare del componimento. L’autunno viene mostrato, sin dal primo istante, nella sua simbolica caducità (di cui“ le foglie che cadono” sono palese metafora), come a tracciare un confine - o a ribadire un’evidenza.
La lirica si configura come un madrigale, un componimento popolare di origine pastorale, denso di allitterazioni e onomatopee volte a riprodurre i suoni dell’aia e delle atmosfere autunnali: odiamo il chicchirichì dei vivaci galletti che razzolano vorticosi all’aria aperta in un tripudio di piume; i richiami gutturali e ripetitivi delle chiocce; il lento ribollir dei tini nei quali fermenta l’uva e, infine, gli stornelli popolari cantati dalle giovani donne che puliscono il granturco, foglia dopo foglia, in attesa del calar del sole e, forse, anche di un affetto, di un amore.
Giovanni Pascoli, come manifestato nella dichiarazione poetica della raccolta Myricae, intende ritrarre un momento di vita umile sulla scorta dell’insegnamento virgiliano nelle Bucoliche. Il poeta riprende la poesia di stampo classico, che si concentrava su argomenti bassi quali il lavoro della terra (in latino humus, da cui deriva humilis; “umiltà” è una parola legata alla terra, letteralmente significa “poco elevato da terra”), e la attualizza inserendo sin dal principio una novità molto novecentesca, in effetti, ovvero la percezione del singolo. Sin dal primo verso di Galline, nonostante il titolo all’apparenza fuorviante, emerge nitida la contrapposizione interessante e audace tra un “loro” e un “noi” e, di conseguenza, anche tra un “io” e un “tu”.
Ci viene detto infatti che all’arrivo dell’autunno alla massaia “non piange il cuore”, come invece accade a noi uomini miseri (l’autore usa opportunamente l’aggettivo “grami”, che deriva dalla parola greca grámmax: piccolo peso) che viviamo nell’abbondanza, nella pienezza, eppure ci intristiamo all’idea della perdita, ci sentiamo poveri e tristi anche se non lo siamo.
Nel “noi” Pascoli include anche sé stesso, la sua malinconia improvvisamente accesa dai falò dell’autunno che sfumano nell’aria abbandonandosi in un languore monotono. In questa singolare contrapposizione è contenuto il senso della poesia che si manifesta in fondo già nel titolo - quasi bizzarro per una lirica colta - Galline, con un’evidenza latente.
Vediamone testo, analisi e commento.
“Galline” di Giovanni Pascoli: testo
Al cader delle foglie alla massaia
non piange il vecchio cuor, come a noi grami,
chè d’arguti galletti ha piena l’aia;
e spessi, nella luce del mattino,
delle utili galline ode i richiami:
zeppo il granaio, il vin canta nel tino,
cantano a sera intorno a lei stornelli,
le fiorenti ragazze, occhi pensosi,
mentre il grano turco sfogliano; i monelli
ruzzano nei cartocci strepitosi.
“Galline” di Giovanni Pascoli: analisi e commento
Giovanni Pascoli amava l’autunno, come ci dimostra anche una sezione specifica dei suoi Canti di Castelvecchio intitolata appunto Diario autunnale (1908) nella quale includeva tutte le principali poesie dedicate alla stagione. Solitudine, nostalgia, inquietudine sono tutte sensazioni tipicamente pascoliane che si avverano in questa stagione crepuscolare che porta con sé l’idea irresistibile della fine. In Sera d’ottobre, Pascoli descriveva un tramonto autunnale accendendolo di una dimensione simbolica.
Anche in Myricae troviamo l’atmosfera dell’autunno colta e ritratta nella sua mite tristezza, nel lento sfiorire delle cose, nell’approssimarsi monotono dell’inverno. Ritraendo la vita agreste, tuttavia, nei versi di Galline Pascoli crea una contrapposizione tra la sua/nostra malinconia e la tranquillità pacifica e piena della massaia che, sulla porta dell’aia, pensa al buon raccolto, al granturco che riempie la pancia della famiglia, al buon vino che fermenta nei tini e presto sarà pronto per essere assaporato.
La gente semplice asseconda il movimento ciclico delle stagioni, non se ne fa un cruccio esistenziale; le ragazze cantano sul calar della sera vecchi stornelli popolari, probabilmente canzoni d’amore, e attendono con fiducia il futuro, non temono l’avanzare inesorabile del tempo della vita; i bambini intanto corrono nell’aia e fanno chiasso, anche loro vivaci come i galletti, vivono appieno il tempo lieto dell’infanzia che non conosce domani. La massaia - che rappresenta la vecchiaia (il vecchio cor) - a sua volta abita bene il proprio tempo e non teme il “cader delle foglie”, anzi, si delizia dell’attimo presente. Nel mezzo sono situate le “fiorenti ragazze” che rappresentano il trionfo della vita - che inarrestabile fiorisce nella sua splendida pienezza - persino nell’approssimarsi dell’autunno. Il “fiorire” della giovinezza viene presentato in netta contrapposizione con il “cadere” del primo verso: infine comprendiamo per quale motivo la massaia è serena, nonostante l’atmosfera di caducità della stagione nuova, lei è circondata dalla vita, dalla pienezza, dall’abbondanza. Siamo noi, come sottolinea il poeta, i “grami” che non riusciamo a cogliere le bellezze del presente e viviamo nell’eterno rimpianto di ciò che non abbiamo.
Giovanni Pascoli in Galline instaura una sorta di dicotomia uomo/animale, equiparando i gesti degli uni e degli altri. Le galline e i pulcini, gli ardimentosi galletti, tutto il vivace pollaio brulica di vita, proprio come la gente contadina attorno: la massaia, i bambini monelli, le fanciulle pensose e liete.
Al “cadere delle foglie” espresso nel primo verso si contrappone un’esistenza piena, come il granaio zeppo, come il vino nelle botti. Per il mondo contadino l’autunno è la stagione dell’uva e del raccolto, il tempo pieno della mietitura e della vendemmia, il momento di raccogliere i frutti della propria fatica consumata giorno dopo giorno in attesa di poterne usufruire. Alle galline, protagoniste della poesia sin dal titolo, Pascoli associa l’aggettivo “utili”: in un’ottica tipicamente agreste questi pennuti sono risorsa, danno le uova, fanno buon brodo, rappresentano abbondanza.
Proprio in “galline” è racchiuso il senso nascosto della poesia: il povero mondo contadino, osserva Pascoli, è in realtà un mondo ricco, sereno, perché asseconda il ritmo della terra, il succedersi delle stagioni da cui ricava cibo e sussistenza, è un mondo in cui l’umanità sa essere appagata del poco che le spetta; mentre i veri miseri sono gli uomini che, come il poeta, si crogiolano nella malinconia autunnale nella quale colgono un riflesso della propria tristezza. Ciò cui Pascoli vuole alludere attraverso i versi di Galline è una povertà che non è materiale, ma spirituale.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Galline” di Giovanni Pascoli: l’autunno contadino in poesia
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