
“Canto di me stesso” scrive Walt Whitman nel 1855 in uno dei suoi poemi più conosciuti e, dichiarando di voler celebrare se stesso, costruisce le fondamenta della letteratura americana moderna.
I versi dello zio Walt raccontano il suo costante amore per l’Uomo, l’essere umano, fatto di corpo e anima in perfetto equilibrio fra di loro, e del suo primordiale e sacro rapporto con la natura, il mondo e l’universo. L’America, nella seconda metà dell’Ottocento, è un Paese giovane, in costruzione, un posto dove tutto può ancora accadere e dove valori come la libertà, la fratellanza, l’uguaglianza fra i suoi abitanti e la democrazia sono ancora possibili da fare propri nella vita di tutti i giorni.
Walt Whitman celebra se stesso come tutti i suoi simili, uomini e donne, perché in ognuno di noi c’è traccia di chi ci è accanto e canta della gioia di vivere che lo fa sentire a casa propria in ogni Stato in cui mette piede e viene accolto. Quella stessa gioia di vivere che lo accomuna agli animali e che gli offre l’opportunità di poter gridare il suo barbarico YAWP sopra i tetti del mondo: un grido animale, liberatorio, del quale non vergognarsi mai perché anche noi facciamo parte del mondo e possiamo contribuire con un verso al suo potente ed infinito spettacolo.
Leggere “Foglie d’Erba” nel 2012 acquista una connotazione atemporale che lascia una leggera sensazione di fastidio: fastidio per tutto quello che non è successo, per tutto ciò che è degenerato e per tutta l’amarezza che proverebbe lo zio Walt se solo potesse vedere cosa siamo diventati. I versi di “Foglie d’erba” aprono gli occhi ed il cuore e in loro vi è molto di più di tutto quello che ho descritto finora: fra quelle pagine ci sono Hemingway, Steinbeck, Foster Wallace, Franzen ovvero tutti i figli della rivoluzione letteraria di Walt Whitman, tutti i suoi figli.

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