Finché notte non sia più
- Autore: Novita Amadei
- Genere: Romanzi d’amore
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Neri Pozza
- Anno di pubblicazione: 2016
Dopo l’esordio con “Dentro c’è una strada per Parigi”, finalista alla prima edizione del Premio Nazionale di Letteratura Neri Pozza, Novita Amadei ha recentemente pubblicato, sempre per Neri Pozza, il suo secondo libro, “Finché notte non sia più” – il titolo, tratto da una poesia di Emily Dickinson, di cui fa proprio l’ultimo verso, apre e chiude idealmente tutto il romanzo –, un’intensa e commuovente storia di amore e di amicizia, di crescita e di ricerca della propria identità, ambientata in luoghi che possiedono un’anima e raccontata con una straordinaria padronanza e precisione di linguaggio.
Liliana e Gina sono sorelle, a unirle, in fondo, sono le stesse cose che le dividono:
“Liliana era parrucchiera, come Gina, sua sorella, la madre di Caterina. Come lei aveva la mano svelta e precisa, ma nient’altro del mestiere le accomunava, né i rispettivi saloni né le loro chiacchiere. Anche le mode e le richieste dei clienti erano diverse nel negozio di Gina, a Roma, e da Liliana, nel sud-ovest della Francia”.
Gina ha il rammarico di non aver saputo trovare i gesti e le parole per tenere unita la famiglia e la consapevolezza di non avere altri che sua sorella, il marito e una figlia, Caterina, che “era rimasta per così poco sua”.
La giovane, infatti, ha lasciato Roma per trascorrere un anno nel borgo dove vive la zia e dove ha passato tante estati:
“I primi giorni di gennaio scorrevano nella geometria allungata degli inizi d’anno. A Caterina sembravano particolarmente lenti in quel borgo della campagna francese dove il rollio del tempo non calcava mai la mano. A Roma sarebbe stato impossibile tanto vuoto, pensava osservando la strada desolata. […] Roma era caotica, ignota, cadente e civettuola, nulla aveva a che fare con quel borgo, antico come un aratro, che lei conosceva da sempre ma che non aveva mai abitato e che le sembrava ora reale, ora sogno, ora déjà-vu”.
Fin da piccola ha aiutato a tenere in ordine il locale, ha cominciato a sperimentare i tagli sulle compagne di scuole, per poi sostituire regolarmente la madre in negozio.
Ma, nonostante molte pressioni, non si è iscritta alla scuola per parrucchieri: dopo il liceo linguistico – e una vera e propria passione per la lingua francese – avrebbe voluto iscriversi all’università. Psicologia. Che poi è diventata infermieristica, come suggerito da Mario, il padre di Caterina, per placare le liti fra lei e la moglie.
Laureata da poco, ha risposto all’annuncio per un incarico annuale presso l’ambulatorio del paesino dove Liliana ha il salone. Lei stessa le ha segnalato quella possibilità, mandando Gina su tutte le furie, visto che la figlia ha rifiutato un posto al Policlinico:
“Caterina era partita il primo gennaio. Ancora si sentivano i botti di Capodanno su Roma”.
Per perfezionare il proprio francese, la ragazza prende ripetizioni dal professor Marthelot: un pensionato dal tono pedante e con un affetto compulsivo per la lingua francese. Da zia Liliana ha saputo che è una persona taciturna e schiva, di cui si dice abbia lasciato una carriera ben avviata in un’università di Parigi per trasferirsi in provincia per una donna, un amore tardivo e infelice. Si sono separati alcuni mesi dopo il matrimonio, ma lui è rimasto lì a insegnare lingua e letteratura francese nei licei. A Caterina ricorda la sua professoressa di francese e una frase di Proust sull’amore che diventerà la chiave interpretativa di tutta la vicenda.
Un pomeriggio, nel salone della zia si presenta un anziano signore con la testa fasciata in qualche modo, la benda sporca di sangue e la massa scompigliata dei capelli tagliata a ciuffi irregolari. È Delio, un italiano trapiantato in Francia, rimasto, dopo la morte della moglie Teresa, a vivere solo in un casolare isolato. Lo sguardo allarmato, il suo stare in silenzio, immobile, con una mano tremante abbandonata lungo la gamba lo rendono più simile a un paziente psichiatrico.
Caterina si prende cura di lui, lo riaccompagna a casa e, quando scopre di aver subito un furto, il posto più sicuro dove si sente di andare è proprio da Delio:
“Non sapeva nemmeno perché era tornata lì, anziché da Liliana. […] Scendendo dalla macchina, aveva immerso i piedi nel buio e si era diretta verso la luce che proveniva dalla finestra. L’immagine di quell’uomo in poltrona con il cane addormentato sopra i piedi la rasserenò e fu sopraffatta dalla tenerezza incredibile degli interni delle case di notte”.
E da Delio Caterina, ragazza di poche cose, si è trasferita, portando solo una valigia e la borsa a tracolla, sentendo subito suo l’appartamento che è stato ristrutturato per qualcun altro:
“Andò a stare nell’appartamento del figlio, in stanze che nessuno aveva mai abitato prima e dove non era possibile ricomporre i ricordi, né falsarli, solo inventarli e sognare. […] Delio le raccontava le mille cose della vita dei campi che aveva imparato da Teresa. E Caterina ascoltava affascinata. Nutrirono presto l’uno per l’altra un affetto che scaldava il cuore, per cui non si chiedevano niente ma si rendevano ogni attenzione”.
Lì, in quel casale in mezzo ai campi, accanto a quell’uomo “silvestre” che parla al malandato cane Ramingo, Caterina scopre il piacere di vivere sciolta da ogni vincolo, false identità e dal dovere di farsi capire.
Anche Delio si accorge che, da quando Caterina si è trasferita da lui, ha qualcuno a cui pensare, senza restare solo con se stesso, con un figlio assente e con i suoi defunti.
Gli unici vicini, infatti, sono Rose e Aron:
“Erano vicini di casa da una vita, le terre dei poderi erano confinanti, quelle di Rose coltivate a orzo da un contadino del posto, mentre Aron non aveva mai fatto nulla delle sue. Quando Teresa si era ammalata, Aron aveva iniziato a dare una mano a Delio nel frutteto mentre Rose divideva con loro la sua produzione di conserve e marmellate e di tanto in tanto cucinava per loro”.
Rose prova per Delio una tenerezza particolare, la stessa che si prova per nei confronti dei bambini a cui il vento ha portato via il palloncino:
“La sua Teresa era volata via e lui continuava a fissare il cielo per cercarla. Non aveva protestato ma era invecchiato di cent’anni e l’unico pensiero a cui riusciva a dare voce era che Teresa era molto più giovane di lui e non toccava lei andarsene per prima”.
Anche il figlio, che non ha cresciuto, se ’è andato: l’inadeguatezza di Teresa come madre lo ha spinto a lasciare Daniele dai nonni, in Italia e quel rammarico se lo porta dentro da una vita. Le sue colpe, poi, non sono circoscritte all’infanzia del figlio: ciò che li ha separati è “molto più recente e definitivo”.
Ci pensa però la malattia a far tornare il giovane, dopo quattro anni vissuti alla periferia di Parigi, dividendosi fra il lavoro, l’amicizia con il tunisino Amir e la passione per la musica.
I due si sono conosciuti a Rungis,
“il più grande supermercato al mondo di prodotti agroalimentari freschi, l’inferno freddo, come lo chiamavano loro, perché qualunque fosse la stagione, lì dentro c’erano sempre dieci gradi”.
Daniele fa l’intermediario mentre l’amico, nel padiglione ittico, pulisce il pesce in uno degli atelier di filettatura, dalle due alle sette del mattino – quando per uno la giornata finisce, per l’altro inizia. Il posto glielo ha trovato il fratello che, a causa di un incidente, è tornato in Tunisia permettendo a Daniele di occupare la sua stanza e di dimostrarsi molto generoso con il coinquilino.
La loro, però, è un’amicizia non sempre facile, messa a dura prova da una serie di circostanze.
Innanzitutto l’incontro con una ragazza polacca, costretta ad abortire perché ingannata e usata da Hamza, un cugino di Amir: Klara, spiega, era il suo permesso di soggiorno.
E poi l’incidente durante uno sciopero indetto dal sindacato di cui fa parte Daniele: fra i trentadue feriti, l’unico grave è Amir, pestato, presumibilmente, da quattro attivisti: quattordici ore di coma profondo, sei costole rotte, il polmone sinistro perforato e tre denti spezzati. L’appartamento si è riempito allora di un odore di spezie, frittura e gente sconosciuta: il fratello di Amir, la madre e altre due donne, fra le quali la futura moglie, quella in origine destinata al cugino Hamza. Il loro regno è la cucina e la lingua araba la migliore forma di esclusione: Daniele si è ritrovato estraneo in una casa in cui, di suo, è rimasta solo la camera.
Obbligato a tornare a casa, Daniele ritrova antichi affetti, ma anche l’insofferenza e il rancore che lo spingono a volersene andare presto. Solo Caterina – quella ragazza sbucata dal nulla la cui presenza, all’inizio, lo infastidisce – riuscirà a fargli comprendere ed accettare la malattia del padre e a risvegliare in lui sentimenti che credeva di non saper provare. Una riconciliazione, pur in tutta la sua problematicità, appare così a portata di mano, proprio come l’amore.
In “Finché notte non sia più”, lo sguardo sul vissuto protagonisti ed i loro ricordi si dilatano fino al presente, permettendo all’autrice di affrontare temi importanti, calati nella concretezza, spesso ordinaria, della quotidianità, degli interni domestici.
Delio, diviso fra i rimorsi di una paternità che sente colpevolmente elusa ed il dolore per l’ingiusta perdita prematura della moglie Teresa:
“Bastava un niente perché pensasse a lei e il ricordo, con gli anni, invece di attenuarsi, si faceva lancinante”.
Daniele, che mette in scena, con il trauma dell’abbandono, la tragedia di una ferita mai placata.
La “fuga” di Caterina da Roma e dalla famiglia, come quella, in direzione opposta, di Daniele, dalla campagna francese dove vive il padre che non vede da anni, diventa invece lo spunto, la prospettiva interna, per un’analisi dei rapporti familiari e, in particolare, della difficoltà di parlare e di capirsi.
Dettagliata è l’attenzione per i luoghi, la natura, le strade, gli interni e, soprattutto, nella descrizione dei personaggi che si disvelano più che grazie ad espliciti tratti psicologici, in modo quasi corporeo attraverso informazioni, forme, odori, movimenti, pensieri, parole dette o taciute.
Fra i temi ricorrenti, anche il viaggio e, insieme, gli incontri – con paesi, persone, paesaggi, colori, sentimenti, emozioni, iniziazioni, parentele, malattie, lingue e pronunce… –, senza i quali il romanzo, tutta la narrazione, sembra non poter avere un inizio ed assumere un senso.
Ancora una volta, Novita Amadei rende la lettura un percorso spirituale grazie al quale esplorare sentimenti e situazioni e da cui trarre una consapevolezza maggiore: nei personaggi si manifesta un’evoluzione che, in fondo, è anche nostra.
Su tutti, alla fine, prevale il sentimento dell’amore – amore di donna, di figli, di umanità – e la celebrazione della vita nei suoi aspetti più quotidiani, persino i più desolati.
La bellezza del romanzo va colta nel tessuto musicale, nel ritmo a tratti dolente, nei dialoghi misurati e, ancor più, nei silenzi: un narrare che non smette di toccarci nel profondo e che riappacifica. Con la letteratura, con il mondo e con noi stessi.
Finché notte non sia più
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Finché notte non sia più
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Non conoscevo l’autrice ma il libro mi è piaciuto tantissimo, anzi è stata una delle poche volte in cui avrei voluto che un libro non finisse mai.
Tratta tanti argomenti, rapporti e sentimenti tra persone, tra l’anziano signore e il suo cane, si parla di cucina, lingue, musica, campagna, ma anche di dolore, malattia e morte, ma leggendolo non ci si intristisce mai, personalmente mi ha lasciato una piacevolissima sensazione.
E poi è praticamente impossibile, almeno per me, non innamorarsi della giovane e sognante Caterina.
Sono d’accordo con lei.
Ho "scoperto" anch’io Novita Amadei ed ho apprezzato non solo la storia, e quindi i luoghi, i personaggi, i temi trattati, ma anche la scrittura.
Ritroverà certamente questa "magia" anche nel suo primo romanzo,
"Dentro c’è una strada per Parigi": se le capita, lo legga, e mi saprà dire.