Film brutti ma così brutti da diventare bellissimi
- Autore: Andrea Carobbio
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Mimesis
- Anno di pubblicazione: 2025
Si tratta di mandar giù un ossimoro duro da digerire: la storia del cinema abbonda di film talmente brutti da rasentare il sublime. La contraddizione in termini va oltre l’ipotizzabile attrazione trash di alcuni spettatori, in quanto alcuni film brutti travalicano gli stilemi comuni del Bello e del Brutto. Alcuni film brutti sono brutti che piacciono. Si attestano oltre la categoria estetica e oltre la semantica cinematografica. Da inclassificabili si collocano oltre il marchiano degli errori di forma e contenuto. Oltre il dilettantesco di sceneggiatura e regia. Persino oltre la sgrammaticatura cinematografica. Al cospetto di cotanta, inconsapevole, alterità, credo possa verificarsi un cortocircuito persino nello sguardo - se sgombro da pregiudizi - del cinefilo. Succede che l’occhio si incuriosisca perversamente. Più o meno ciò che nell’Ottocento succedeva davanti allo spettacolo dei fenomeni da baraccone esibiti nelle fiere di paese. Una sindrome di Stendhal al rovescio che può colpire anche lo spettatore più navigato. Credo che più che dal cinema l’afflato discenda da rimossi infantili. Fino a qualche generazione fa siamo stati tutti attori improvvisati, pedestri sceneggiatori di remake allestiti nel salotto buono della nonna (guardie e ladri, astronauti e mostri spaziali, indiani e cowboy). Giustifico l’abominio estetico dell’ultra-trash-che-piace come un ritorno inconscio all’infanzia delle nostre improvvisazioni registico-attoriali. Ma può valere lo stesso per un regista di professione? Davvero un filmaker, ancorchè sedicente tale, può osare tanto impunemente oltre le colonne d’ercole della plausibilità cinematografica? E come se non bastasse continuare a credere in sé stesso? Questa la domanda che tormenta – ma senza malanimo, con un senso, invece, di ammirata stupefazione – lo Zorro e lo sceriffo bambini che sopravvivono in me.
Per emblematizzare l’humus pasticcione degli Z-movies con le parole di Andrea Carobbio – autore per Mimesis del sapido Film brutti ma così brutti da diventare bellissimi (2025) –, date una scorsa al modo con cui tratteggia l’Uomo ragno cattivo del film 3 Dev Adam. Versione turca
un tantino rivisitata dell’eroe che siamo abituati a vedere sul grande schermo: fisico da consumatore abituale di bianchino, il costume, per così dire, incomprensibilmente rosso e verde, i pantaloni attillati in modo imbarazzante, il simbolo del ragno all’altezza del petto disegnato a pennarello dal figlio di otto anni della costumista e, dulcis in fundo, due assurdamente lunghe e cespugliose sopracciglia che fuoriescono dai fori per gli occhi della maschera, a sottolinearne la crudele malvagità.
Il libro di Carobbio abbonda di affettuosi sarcasmi (ossimoro intenzionale) come quelli di cui sopra. Frecciatine al vetriolo che rendono la lettura di Film brutti un viaggio irresistibile tra sottili madeleine del nostro sgomento cinefilo (altro ossimoro voluto). Tra un alieno de noantri allestito con la trippa per gatti (Alien 2- sulla Terra); stormi di uccelli che esplodono in volo senza apparente ragione, che a un certo punto, senza ulteriore ragione, diventano assassini (Birdemic. Shock and terror); Yeti dai capezzoli erogeni e l’acconciatura cotonata alla faccia del King Kong che vorrebbe imitare (Yeti. Il gigante del XX secolo), Film brutti si divora come i carnivori divorerebbero un doppio hamburger alla faccia del colesterolo. Per esperienza personale, credo debbano sentirsi così gli spettatori adusi al consumo di cinema-cinema, quando sbirciano loro malgrado le incongruenze di film brutti/bellissimi a cui non riescono a sottrarsi: pancia piena e coscienza gravida di sensi di colpa. Primo fra tutti, l’essersi fatti complici di attori, registi, sceneggiatori da denuncia per lesa maestà cinematografica.
Con una giustificazione umanista affatto campata in aria, l’autore di questo libro salva capra e cavoli:
Ciò che rende davvero affascinanti queste pellicole è che rappresentano un viaggio di sola andata nella psiche dei loro creatori. Aprono uno squarcio sulla vita di persone senza talento e per lo più senza alcuna preparazione che, nonostante i palesi limiti imposti dalle proprie capacità e da budget spesso risicatissimi, semplicemente se ne fregano. Ma che vengano mossi da un’ambizione sfrenata e infantile, o da un egocentrismo esasperato o ancora da un’ottusità che rasenta l’idiozia, non possiamo che ammirarli. I loro film sono monumenti alla resistenza. All’ambizione sconsiderata. Alla frustrazione. Al fallimento. All’amore incondizionato e illogico per l’arte cinematografica. Ci raccontano di quanto sia dannatamente difficile riuscire a fare, a essere ciò che si vuole nella vita. Ed è per questo che è impossibile non amarli.
Mi sembra, in ultima analisi, un giudizio onesto, e il saggio lo è altrettanto: nessuna apologesi, nessuna puzza sotto il naso, e invece tanta ironia. Con la consapevolezza che il cinema è stato (oggi non più) anche quello degli Z-movie proiettati di fila, uno dopo l’altro, nei cinema di terza visione delle nostre città.
Lettura raccomandata. Anche ai non cinefili.
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