

Il poeta italiano Dario Bellezza (1944-1996) nel 1971, mentre legge Invettive e licenze. Foto di Massimo.Consoli, CC BY-SA 2.5 IT, via Wikimedia Commons
Purtroppo in Italia ci dimentichiamo spesso di grandi poeti, una volta morti. È un Paese con scarsa memoria il nostro, che fa cadere nell’oblio molti artisti, magari dopo averli fatti vivere una vita grama. Così è successo a Dario Bellezza (Roma, 5 settembre 1944 – Roma, 31 marzo 1996), ormai ricordato solo da letterati, cultori della poesia, pochi appassionati. Certamente qualche tempo fa l’Oscar Mondadori con l’opera omnia di Bellezza ha suscitato interesse e curiosità. Ma coloro che conoscono bene la sua poesia sono una ristretta cerchia di italiani. Insomma quando uno muore, muore. C’è poco da fare. Eppure il poeta aveva subito fatto parlare di sé già con Invettive e licenze, la sua opera d’esordio. Erano altri tempi. La poesia contava ancora qualcosa. Aveva un minimo di impatto mediatico e dava agli autori un minimo di visibilità e riconoscimento culturale.
“Invettive e licenze”, l’esordio di Dario Bellezza


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La prima raccolta di poesie di Dario Bellezza, Invettive e licenze, venne pubblicata nel 1971 con entusiastica presentazione di Pasolini, che definì Bellezza “il miglior poeta della sua generazione”. Ebbe riscontro di pubblico, suscitò interesse e scalpore. Bellezza scriveva sotto l’egida di Rimbaud, di Pasolini, di Gide, di Penna, di Braibanti. Potremmo definire quest’opera per la liberazione omosessuale l’”Urlo” italiano. Però, a differenza del poema di Ginsberg, non ci sono tracce psichedeliche né echi whitmaniani. Bellezza stupiva molti per la chiarezza che coesisteva con il lirismo, con l’accuratezza verbale che esprimeva un quid indefinito che pulsava dentro, con una poesia che trattava di quotidianità e allo stesso tempo di trasgressione, anzi che faceva della trasgressione la normalità.
Negli anni settanta alcuni critici vollero creare l’antagonismo tra Bellezza e Maurizio Cucchi. Alcuni come Manacorda videro nella pubblicazione de “Il disperso” di Cucchi nel 1976 la risposta di Milano a Roma, di Raboni a Pasolini, morto tra l’altro nel 1975, vero padre per Bellezza, di cui non riuscì mai pienamente a rielaborare il lutto, come testimoniato nel suo libro “Morte di Pasolini”. Cucchi e Bellezza però non furono mai rivali, anzi furono amici.
Ma torniamo a “Invettive e licenze”. Perché questo titolo? Le invettive sono rivolte alle donne di cui il poeta si innamorava platonicamente, come ha recentemente dichiarato la scrittrice Barbara Alberti: donne con cui aveva rapporti conflittuali e da cui scaturivano conflitti intrapsichici prima ancora che interpsichici. Le licenze erano gli incontri furtivi con i ragazzi di vita. Ma mentre in Penna l’eros con i suoi ragazzi era sublimato, in Pasolini assumeva una connotazione impersonale, in Bellezza la soggettività, il privato entravano prepotentemente: qui si parla di amplessi consumati nei bagni di cinema e tra le fratte. Da una parte il sesso mercenario oppure occasionale, dall’altra il senso di colpa, il rimorso, tipico dell’educazione cattolica. Il poeta rappresenta la condizione di ghettizzazione e di autoghettizzazione degli omosessuali dell’epoca, quando per gli psicologi essere gay significava essere malati, per i preti significava vivere nel peccato mortale, per la mentalità comune invece significava essere invertiti, contronatura, insomma diversi. Allora l’omosessualità era un tabù di cui non parlare e chi ne parlava doveva condannare il cosiddetto vizio. Bastava una voce anche infondata a riguardo per rovinare per sempre la reputazione. Vi ricordate del dottor Fadigati di Bassani? Essere omosessuali allora significava essere marchiati a vita.
Bellezza rompeva il tabù: metteva al centro del suo libro le contraddizioni intrinseche, la trasgressione, l’emarginazione dell’essere omosessuali in quegli anni. Ma prima ancora della società con la sua riprovazione e il suo giudizio perentorio, l’omosessualità per Bellezza come per Pasolini era il suo nemico interno principale perché entrambi psicologicamente si identificavano con l’aggressore, avevano un persecutore interno. Ecco allora che pregava Dio di farlo morire eternamente. D’altronde cosa chiedere a Dio se nel suo animo c’era un grande combattimento, se la mentalità comune era omofoba, se lo Stato era un Leviatano assente, lontano dalle esigenze delle minoranze, dal rispetto di quelli che oggi chiameremmo diritti civili? È questo il fattore scatenante dell’autodistruzione lenta e inesorabile, del masochismo morale prima ancora che erotico di Bellezza.
Ma nel poeta c’era anche una lotta interna incessante tra femminile e maschile. La sua poesia è un’emersione della “parte ctonia femminile”. Dal punto di vista archetipico questo libro è l’espressione dell’Anima e dell’Ombra, junghianamente parlando. Se è vero che la comunità letteraria anche all’epoca aveva una mentalità più aperta, è altrettanto vero che c’erano ancora letterati della vecchia guardia che si sentivano scandalizzati da questo volume, che è esplicito ma mai osceno, mai volgare. Forse le cose che scandalizzavano di più erano la comunicatività unita alla letterarietà. Forse addirittura scandalizzava il fatto che l’omosessualità era poetizzata in prima persona perché poi tutte le altre figure erano sullo sfondo e cadevano nell’indistinto e perché quindi l’unico personaggio della dramatis personae era Bellezza stesso.
Dal punto di vista prettamente politico il poeta rifiutava l’ideologia e questo per alcuni era imperdonabile perché bisognava prendere posizione e saper da che parte stare. Dal punto di vista letterario Bellezza rompeva gli schemi e la dicotomia tradizione/Neoavanguardia. Inoltre non c’era segno di fenomenologia, né di ontologia. Non c’era interrogazione metafisica, né intellettualismo. Bellezza non cercava la rivoluzione, né il Nobel. La sua era una ricerca autentica per liberare prima di tutto sé stesso dai suoi demoni interiori, dai suoi fantasmi inconsci. Insomma era un autore politicamente e stilisticamente non collocabile e l’unica cosa certa era il suo orientamento sessuale. Per tutte queste ragioni la sua poesia aveva una carica eversiva e liberatrice. C’erano giovani omosessuali che si identificavano e si riconoscevano nei suoi versi: Bellezza rappresentava ciò che loro non avevano il coraggio di dire, di scrivere, di vivere. Forse ciò che alcuni non perdonavano al poeta era essere un “Narciso senza narcisismo”, come lui si definiva: un’anima in pena, che non riusciva a rispecchiarsi in un unico amore.


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Ecco allora quello che Gadda definiva “petrarchismo numerico” per Pasolini. La stessa identica cosa avveniva psicologicamente in Bellezza, che però la esprimeva in modo nuovo senza alcun epigonismo. In Bellezza c’è la stessa identica scissione pasoliniana: i “corpi senz’anima”, ovvero i ragazzi di vita, e le anime senza corpo, ovvero le donne angelicate e perciò vissute come asessuate (la madre e la Callas per Pasolini). Forse perciò quella di Bellezza era una poesia genuina, originale, talentuosa, brillante, limpida e confessionale in un tempo in cui il termine confessionale doveva riguardare solo la Chiesa. Il clerico-fascismo colpì Pasolini a morte. E fece pagare a caro prezzo a Bellezza il suo coraggio. Ma questo negli anni a venire.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Perché Dario Bellezza è un poeta da non dimenticare
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Grazie per l’appassionato e colto articolo di Morelli, volevo aggiungere la frequentazione assidua con Alberto Moravia e Elsa Morante.
Diventarono un trio, anche Moravia pativa molto le escursioni sessuali di Bellezza e di Pasolini stesso. Un pettegolezzo brutto e volgare, però, portò alla scisma fra la Morante e Bellezza. In modo definitivo. Se la scrittrice lo vedeva al bar Canova o in trattoria, tornava indietro. Non gli parlò più fino alla fine. Fu un peccato perché con Bellezza la scrittrice di La Storia avevano fatto progetti tra loro.
Grazie dell’attenzione
Cordiali saluti
Vincenzo Mazzaccaro