Con me e con gli alpini
- Autore: Piero Jahier
- Genere: Storie vere
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Mursia
- Anno di pubblicazione: 2014
Piero Jahier nacque a Genova nel 1884 e iniziò i suoi studi a Torino, dove suo padre, un pastore valdese, era stato inviato a fare proselitismo. Nel 1895, gli Jahier si trasferirono a Firenze e in quella città, nel 1897, il padre di Piero si tolse la vita, consumato dal rimorso per un adulterio e convinto di essersi macchiato di un peccato che lo rendeva indegno di predicare il Vangelo.
Nel 1909 Jahier conobbe Giuseppe Prezzolini (1882-1982) e cominciò a collaborare con la rivista "La Voce", di cui fu responsabile dal 1911 al 1913, iniziando così la sua carriera di scrittore, poeta e traduttore. Convinto interventista (come gli altri vociani), durante la Grande Guerra si arruolò volontario tra gli alpini. Nel corso di quel conflitto scrisse un piccolo libro autobiografico, Con me e con gli alpini, pubblicato per la prima volta nel 1919 e riedito da Mursia nel 2005, a distanza di 39 anni dalla scomparsa dell’autore, spirato il 19 novembre 1966.
Lo scrittore spedì il manoscritto dell’opera durante la rotta di Caporetto, con l’ultimo treno in partenza da Belluno, mentre la città era invasa dagli austriaci. Queste memorie coprono un arco temporale che va dal marzo del 1916 al luglio del 1917, sono scritte in un misto di poesia e prosa e hanno in sé alcuni aspetti significativi riguardo la particolare visione degli eventi bellici che riescono a trasmettere.
Jahier fu tenente istruttore di un reparto di alpini e instaurò dei legami di simpatia e di amicizia molto stretti con le reclute. Pervaso dal mito di una guerra capace di rinnovare la società instaurando una maggiore eguaglianza tra gli uomini, il narratore fu affascinato dalla cultura delle genti di montagna che aveva come elemento fondamentale la semplicità e la praticità.
Tra le pagine di Con me e con gli alpini viene ripetuto spesso come in guerra emerga la superiorità di chi è abituato a vivere di privazioni e quindi ha meno bisogni degli altri.
L’ufficiale italiano è perfettamente conscio del fatto che i montanari veneti hanno una propria cultura, diversa da quella dei borghesi di città, e cerca di avvicinarsi a loro apprendendo la lingua con cui si esprimono:
"Bisogna imparare il dialetto, unica lingua dei loro pensieri. Far presto a imparare questo dialetto, anzi lingua veneta, così armoniosa e sensitiva. Io che vorrei sapere tutti i dialetti d’Italia, anziché il dialetto toscano dei letterati. Ogni dialetto rappresenta una terra e un sangue che deve trovar luogo così nella patria come nella lingua italiana".
Jahier parrebbe quindi convinto che l’unità della lingua italiana si fondi anche su un rapporto di dare e avere con i dialetti, che sono una componente essenziale dell’identità, ma all’interno dello stesso libro egli finisce per contraddirsi. Cercando di convincere i soldati veneti a non sprezzare i loro commilitoni meridionali, infatti, l’istruttore spiega alle reclute che essere italiani era più importante di essere piemontesi o abruzzesi, tuttavia queste parole vanno contestualizzate nei giorni della guerra, quando era indispensabile tenere unite le truppe davanti alla necessità di far fronte al nemico.
Dal punto di vista dello stile, il libro di Jahier non è un capolavoro, ma se ne salvano almeno alcuni passaggi che lo rendono veramente meritevole di essere letto. Notevole è il capitolo in cui i soldati contestano le scarpe fornitegli dall’esercito, diverse dalle calzature tradizionalmente utilizzate in montagna e inadatte alla vita in quota:
"Cara porca Italia, che coi piedi in molle vuoi farci morire!"
Perplesso dagli scarponi quadrati che i suoi uomini sono costretti a indossare, l’autore dà ragione ai montanari:
"Guardo con tristezza le scarpe della civiltà presuntuosa che ha spezzato quelle primitive, figlie allo zoccolo montanaro e somiglianti al loro padre. È la superba civiltà del progresso senza confini."
Da questo diario si coglie perfettamente come tanti soldati, seppur uniti dal cameratismo, ignorassero completamente la concezione moderna della nazione; essi provenivano ancora dal mondo genuino della vecchia Italia, e i passi che descrivono l’etica del montanaro sono veramente struggenti.
Tra i montanari, afferma Jahier, non esistevano malattie veneree, poiché per questi uomini l’amore era una stagione della vita il cui frutto erano i figli. Tra i ragazzi di montagna i legami familiari erano fortissimi:
"Li amano tanto le loro donne che fan 60 chilometri solo per vederli alla porta della caserma, un minuto. Perché fondamento della famiglia è stato il primo amore che non si può scordare. Nella montagna si sposa vergine l’uomo."
Se ci è concessa una provocazione, forse c’è da credere che siano questi i famigerati “orrori della famiglia tradizionale” di cui cianciano tanto spesso certi progressisti dei nostri giorni, capaci solo di bestemmiare la famiglia, Dio, la Patria e la civiltà cristiana: ideali altissimi di cui non sanno assolutamente nulla e che nessuno gli chiede di condividere, ma solo di rispettare.
In montagna la famiglia era tutto: ospedale, chiesa e bottega.
"Ogni stalla il suo piccolo altare e ogni sera o in stalla o all’aperto la preghiera. I vecchi – temendo di perdere la corona – ne scolpivano i grani sul proprio bastone."
L’affetto di Jahier per questi uomini umili fu sincero e probabilmente ricambiato, egli li definì "popolo non guidato" e aggiunse che la miseria non fa guerre "ma semmai rivoluzioni", si deve però osservare che questo presunto desiderio di rivoluzionare il mondo apparteneva solo a lui, i suoi discorsi risentono almeno in parte dei toni nazionalistici che segnarono la sua epoca, ma vi si può riconoscere anche un forte paternalismo (a tratti stucchevole). In ogni caso Con me e con gli alpini è un libro che può essere consigliato a chiunque si interessi della storia della Prima Guerra Mondiale.
Con me e con gli alpini: Presentazione di Ermanno Paccagnini
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