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Storia della letteratura

“Comizio” di Pier Paolo Pasolini: analisi e commento del poemetto

Il 5 marzo 1922 nasceva a Bologna Pier Paolo Pasolini. Lo ricordiamo attraverso il poemetto 'Comizio'. Un'atmosfera desolante e angosciante viene colta da Pasolini mentre assiste a un comizio fascista. Scopriamone testo, analisi e commento.

Federico Guastella
Federico Guastella Pubblicato il 05-03-2023
“Comizio” di Pier Paolo Pasolini: analisi e commento del poemetto

Il 5 marzo 1922 nasceva a Bologna Pier Paolo Pasolini. Lo ricordiamo attraverso il poemetto Comizio. Un’atmosfera desolante e angosciante viene colta da Pasolini mentre assiste a un comizio fascista. L’argomento ha poi una grandezza visionaria quando si trova a fianco del fratello Guido, ucciso il 12 febbraio 1945, nella Resistenza, durante i "Fatti di Porzus".

Il poemetto era stato intitolato Notte a Piazza di Spagna, ma nel 1954 apparve nella rivista Botteghe oscure col titolo Comizio, così rimasto nella raccolta Le ceneri di Gramsci.

Scopriamone analisi del testo e commento.

Comizio di Pier Paolo Pasolini: analisi e commento

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Era l’anno in cui Pier Paolo Pasolini aveva ricevuto il premio Carducci con la silloge in versi friulani La meglio gioventù. Feroce in quel tempo la repressione burocratica contro socialisti e comunisti, mentre rinascevano le manifestazioni fasciste. Aveva avuto l’ispirazione da un comizio del Movimento sociale che si teneva in Piazza di Spagna, e quella volta fu per lui l’occasione di ricordare il proprio fratello Guido morto nella Resistenza. È il sentimento del notturno ad animare i primi versi che ne cantano la poeticità. Sa di “quieto terrore” la notte e si odono brusii appena “le gronde urbane” si confondono con il buio del cielo. Fondono il loro mistero nel mistero del cosmo “muri impalliditi”, “infeconde aiole” e “magri cornicioni”.

D’improvviso si presenta allo sguardo un evento che capovolge le “ignare fantasie”: quel che succede raggela l’animo e sconsacra “le calde, care / pareti”. La piazza trasale, “le macchine dei potenti” sfiorano “il fianco del giovane paria / che inebbria coi suoi fischi la città...”.

Una smorta folla empie l’aria

d’irreali rumori. Un palco sta
su di essa, coperto di bandiere,
del cui bianco il bruno lume fa

un sudario, il verde acceca, annera
il rosso come di vecchio sangue.

È l’immagine della fiammella fascista che provoca dolore e “respinge indietro” come se Pasolini non volesse vedere. Invece, “disincarnato”, si sospinge nella folla di “ombre”. Guarda, e ascolta. Intanto Roma tace, il silenzio è insieme “della città e del cielo”: “Non risuona / voce su queste grida”. Angosciante lo spettacolo al quale assiste:

… E più qui crescono

gli urli (e in cuore l’odio), più brullo
si fa intorno il deserto
dove il consueto, pigro sussurro

s’è stasera sperduto…

Chiara la distinzione compiuta da Pasolini fra il razzismo popolare e quello fascista: se nel primo è operante una “oscura allegria”, cioè una pulsione inconscia e ingovernabile, nel secondo è prevalente una “triste oscurità”.

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Sono “Esemplari vivi” i fascisti che si credevano morti e invece si ripresentano come una folta falange: urlante “che impazza / cantando la salute”, segnata da una energia che è sì debolezza, ma si manifesta come “offesa sessuale”, come violenza su cose e su persone con cui si esprime l’impotenza borghese, nonché la confusione di una fede che ciecamente violenta la vita. Lo sconforto gli fa desiderare la morte: “che mi si spegnesse il petto”, dice, insieme alla città per convertire in “puro stupore i monchi / sentimenti, pietà, amarezza”.

Getta intorno occhiate che non gli consentono di riconoscersi: “tanto sono diverso”; frattanto, nei visi di quella gente scorge “un tempo morto”. Riferendosi alla morte dei “freschi giorni / del popolo”, vede i “fantasmi”, “i risorti / istinti”:

… Questi visi giovanili
precocemente vecchi, questi storti

sguardi di gente onesta, queste vili
espressioni di coraggio. La memoria
era dunque così smorta e sottile

da non ricordarli? Tra i clamori
cammino muto, o forse sono muti
essi, nella tempesta che ho nel cuore.

Totale il disorientamento che lo imprigiona, provando il senso di perdita del proprio corpo. Fra ombre, si sente come un fantasma, quand’ecco che “in silenzio al fianco mi si scopre un compagno”, sentito come fratello: “Con me guarda / nei visi questa gente, con me il misero / corpo trascina tra petti che coccarde / colmano di vile orgoglio”.
La forza descrittiva di Pasolini si muta nell’afflato visionario che gli fa scorgere lo sguardo del fratello Guido.
Ora lo scenario del “comizio” si muta accoratamente nella percezione della relazione parentale:

E in questo triste sguardo d’intesa,
per la prima volta, dall’inverno

in cui la sua ventura fu appresa,
e mai creduta, mio fratello mi sorride,
mi è vicino. Ha dolorosa e accesa,

nel sorriso, la luce con cui vide,
oscuro partigiano, non ventenne
ancora, come era da decidere

con vera dignità, con furia indenne
d’odio, la nuova nostra storia: e un’ombra,
in quei poveri occhi, umiliante e solenne…

Guido, che con la sua lotta aveva fatto intravedere il nuovo corso della storia, chiede ora pietà “con quel suo modesto, / tremendo sguardo”. Non tanto per il suo destino ormai compiutosi quanto per il nostro, dice Pasolini. Struggenti i due interrogativi di chiusura del poemetto, ancorché retorici:

… Ed è lui, il troppo onesto,

il troppo puro, che deve andare a capo chino?
Mendicare un po’ di luce per questo
mondo rinato in uno oscuro mattino?

C’è bisogno di nuova luce perché si diradi l’oscurità del rinato fascismo; non sono i morti che devono andare a capo chino ma è con l’impegno civile che si può e si deve cambiare la realtà.

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