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Storia della letteratura

Il pianto della scavatrice di Pasolini: analisi e commento del poemetto

Il poemetto narra del tragitto che Pasolini, in una sera estiva a Roma, compie per tornare a casa. La descrizione si intreccia con la meditazione; all'alba, il rumore di una scavatrice esprime il passaggio da un'epoca all'altra.

Federico Guastella
Federico Guastella Pubblicato il 09-02-2023
Il pianto della scavatrice di Pasolini: analisi e commento del poemetto

Solo l’amare, solo il conoscere
conta, non l’aver amato.
Non l’aver conosciuto. Dà angoscia

il vivere di un consumato amore.
L’anima non cresce più.

Sono i versi che fanno da incipit al poemetto Il pianto della scavatrice, che presenta terzine di versi liberi legati spesso da assonanze o consonanze. In sei sezioni e datato 1956, venne pubblicato l’anno successivo sulla rivista “Il contemporaneo” e poi inserito tra i componimenti che compongono Le ceneri di Gramsci.

Il pianto della scavatrice di Pasolini: analisi e significato

Quel che conta, vuole dire Pasolini, è l’amare e il conoscere al presente: un amore vissuto nel passato fa l’anima prigioniera del rimpianto, ed essa non vola più per evolversi. Lungo il cammino, lo sguardo si posa tra le anse del Tevere; è notte e la città, sparsa di luci appare come sopita. Egli sente ancora gli echi della vita convulsa di ogni giorno. Se fino a ieri la quotidianità era stata la sua ragione di esistere, adesso la rifiuta. Dettagliate le sue osservazioni mentre, annoiato e distratto, si dirige verso casa.

Suggestivo l’omaggio a Roma, alla quale riconosce una funzione formativa:

Stupenda e misera città,
che m’hai insegnato ciò che allegri e feroci
gli uomini imparano bambini,

le piccole cose in cui la grandezza
della vita in pace si scopre, come
andare duri e pronti nella ressa

delle strade, rivolgersi a un altro uomo
senza tremare, non vergognarsi
di guardare il denaro contato

con pigre dita dal fattorino
che suda contro le facciate in corsa
in un colore eterno d’estate;

a difendermi, a offendere, ad avere
il mondo davanti agli occhi e non
soltanto in cuore, a capire

che pochi conoscono le passioni
in cui io sono vissuto:
che non mi sono fraterni, eppure sono

fratelli proprio nell’avere
passioni di uomini
che allegri, inconsci, interi
vivono di esperienze
ignote a me. Stupenda e misera
città che mi hai fatto fare

esperienza di quella vita
ignota: fino a farmi scoprire ciò
che, in ognuno, era il mondo.

È la notte più bella dell’estate, brulica la vita a Trastevere che non dorme ancora: uomini e ragazzi se ne tornano alle loro case verso i loro vicoli intasati di oscurità e di immondizia. Leggero è il loro cammino così come leggera era l’anima del poeta quando amava e veramente voleva capire.
Il canto che li accompagna lentamente si dissolve. Da qui comincia la rievocazione del cosiddetto “esilio di Rebibbia”, luogo dove sorgeva la sua prima casa. La descrizione ha i caratteri della ‘realtà meridionale’ delle borgate:

Ero al centro del mondo, in quel mondo / di borgate tristi, beduine, / di gialle praterie sfregate / da un vento sempre senza pace, / venisse dal caldo mare di Fiumicino, / o dall’agro, dove si perdeva / la città fra i tuguri; in quel mondo / che poteva soltanto dominare, / quadrato spettro giallognolo nella giallognola foschia, / bucato da mille file uguali / di finestre sbarrate, il Penitenziario / tra vecchi campi e sopiti casali.

Arrivato vicino a casa (quella nuova di via Fonteiana), sui brandelli di quello che era stato un prato, ai bordi di fossi appena scavati nel tufo, scorge “inanimata” una scavatrice; “caduta ogni rabbia di distruzione”, lo invade una pena quando osserva gli attrezzi di lavoro lasciati per terra: “sparsi qua e là nel fango”. Vede anche un cavalletto da cui pende un drappo rosso. E non riesce a distoglierne lo sguardo come se fosse così potente da destargli un rimorso che riteneva ormai sopito. Lasciate le borgate, tra gli affollati edifici del centro storico vede una scritta tracciata con la calce che inneggia al Messico rivoluzionario: è il sogno di un mondo senza sfruttatori. Al mattino, è luce ovunque; il sole avvampa sui quartieri e sulle finestre dei palazzi.

Una dozzina di anziani operai si aggirano taciturni attorno ai mucchi di terra. La “benna” che sembra cieca.

Sgretola, cieca afferra,/ quasi non avesse meta>>, è il simbolo d’una dolorosa trasformazione. D’improvviso un urlo, un grido di morte: <<Piange ciò che ha / fine e ricomincia. Ciò che era / area erbosa, aperto spiazzo, e si fa / cortile, bianco come cera, / chiuso in un decoro ch’è rancore; / ciò che era quasi una vecchia fiera / di freschi intonachi sghembi al sole, / e si fa nuovo isolato, brulicante / in un ordine ch’è spento dolore.

L’immane lavoro edilizio sta distruggendo ciò che c’era prima; splendida la rappresentazione della vecchia scavatrice che in modo originale salda il percorso autobiografico con la tematica politica: non a caso a Pasolini ritornano in mente i fatti d’Ungheria e le rivelazioni di Kruscev al ventesimo congresso del PCUS, eventi che avrebbero cambiato il mondo.
Imminente la fine di un’epoca, il tramonto di una società preindustriale che condurrà a più accese diseguaglianze tra ricchi e poveri.

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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Il pianto della scavatrice di Pasolini: analisi e commento del poemetto

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